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"Il fantastico è il linguaggio dell’io interiore.Non pretenderò altro per la narrativa fantastica che dire che la ritengo il linguaggio adatto a raccontare storie ai bambini ed a altri. Ma lo affermo con sicurezza perché ho dietro di me l’autorità di un grandissimo poeta, che lo ha detto in modo molto più audace: “Il grande strumento del bene morale – ha detto Shelley – è la fantasia.”

Ursula Le Guin

venerdì 14 maggio 2010

SULLA FIABA E SULLA FIABA TEATRALE



Gli arcaici elementi di autoanalisi presenti nella fiaba e nel mito, coniugati con la valenza catartica propria del teatro, possono costituire un validissimo supporto dell’educazione del bambino e del giovane, una terapia “dolce” e divertente che lo aiuti ad affrontare e a superare insicurezze, disturbi e difficoltà.
Vladimir Propp ha dimostrato, nelle “Radici storiche dei racconti di fiabe” che le fiabe, per quanto mutate nel corso dei millenni ed influenzate dai nuovi costumi, conservano ancora un nucleo originario che deriva dai miti e da riti tribali: riti d’iniziazione dell’età della caccia, poi riti agricoli di fertilità. Un mito religioso può infatti diventare fiaba quando non è più creduto, oppure una tribù può raccontare come fiaba il mito in cui crede la tribù vicina.
Carl Gustav Jung sostiene che l’eterna vicenda dell’eroe e della fanciulla, di morte e di rinascita, discesa agli inferi e ritorno, comuni nei miti e nelle fiabe, esprimono in noi il faticoso emergere e il continuo, precario riemergere della coscienza (fanciullo, fanciulla, eroe) dall’inconscio ( bosco, grotta, inferi, drago, ecc.) Per il pieno sviluppo della coscienza e della responsabilità (considerando che iniziazione alla vita significa significa individuazione), occorre tener conto dei bisogni, spesso repressi, proposti dal nostro inconscio. Essi si esprimono in sogni e fantasie, immagini non tanto dissimili da quelle che spinsero i primitivi a creare miti e fiabe. Perciò non è affatto vero che le vecchie fiabe siano anacronistiche o nocive per i bambini ei ragazzi di oggi e quindi da sostituire con fiabe realistiche e/o progressiste: in esse, rivive infatti il precipitato della storia delle origini della coscienza umana. Se pertanto i bambini e i ragazzi vanno educati alla realtà, ciò non si otterrà con falsi racconti progressisti ma con informazioni reali che le fiabe da sempre, appunto, forniscono.
Anche Bruno Bettelheim, nel “Mondo incantato” ha sviscerato il profondo significato psicanalitico delle fiabe popolari. Esse, egli sostiene, come prodotto raffinato di millenni di cultura, sono autentiche opere d’arte e quindi, come la grande arte, in grado di trasmettere nello stesso tempo più di un significato: riescono cioè a parlare simultaneamente a tutti i livelli della personalità umana, comunicando in modo tale da raggiungere sia la mente ineducata del bambino e del giovane in genere, che quella più sofisticata dell’adulto. Riescono così a suggerire le giuste soluzioni ai più importanti problemi esistenziali e proprio per questo sono senz’altro da preferire a tutta la letteratura per l’infanzia, anche se in apparenza, ma solo in apparenza, possono sembrare avulse dalla vita di tutti i giorni, dalla vita cioè della moderna società mass-mediale, in quanto create prima del suo avvento.
Come i sogni, le fiabe e i miti ci parlano in un linguaggio simbolico, “il linguaggio dimenticato”, così come lo chiama Erich Fromm nel suo libro omonimo, e in realtà forniscono, agendo a livello subliminale proprio come i sogni, una reale educazione alla vita, non per mezzo di concetti astratti ma induttivamente, prestando modelli di comportamento nei quali identificarsi e sostenendolo nella ricerca di un significato da dare alla vita. La loro forza e la loro eterna modernità risiede in questo agire a livello subliminare che si esplica in veramente infinite possibilità, particolarmente, aggiungeremo, oggigiorno, in un momento storico in cui agli educatori sembra riesca sempre più difficile presentare ai giovani una realtà così complessa, contradditoria e inquietante, un mondo, cioè, troppo rapidamente teso alla trasformazione, all’omologazione, alla contrapposizione, in cui può emergere, particolarmente angosciante e destabilizzante, l’assenza di un significato ultimo da dare alla vita o comunque la grande difficoltà, nell’adulto, di individuarlo per sé, per poterne fornire le coordinate d’individuazione all’ignaro bambino, al ragazzo inesperto, al fragile adolescente.
Le storie moderne scritte per l’infanzia e per i ragazzi (là dove non sono cronache spesso sconsolate e/o agghiaccianti) evitano, per la maggior parte i problemi esistenziali dell’uomo: non accennano, per esempio alla presenza del male, alla morte e all’invecchiamento; le fiabe, al contrario, pongono il bambino, il ragazzo, l’adolescente onestamente di fronte al lato oscuro dell’esistenza, al suo lato oscuro anche e, in modo semplice e chiaro, suggeriscono come affrontarlo, in una lotta coraggiosa quanto inevitabile.
Per quanto si voglia far credere ai nostri figli che tutti gli uomini sono buoni, essi ben sanno che loro stessi non sono buoni e spesso, quando lo sono, preferirebbero non esserlo. Ciò contraddice quanto viene loro detto dai genitori e dagli adulti in genere e li rende mostri ai loro stessi occhi.
Tenendo questo mostro all’interno del giovane, inespresso, nascosto nel suo inconscio, gli adulti gli impediscono di tesservi attorno fantasie liberatorie sull’immagine dei miti e delle fiabe che conosce e, senza tali fantasie, non gli è dato di conoscere meglio il proprio mostro né gli vengono forniti suggerimenti sul modo in cui egli può dominarlo; di conseguenza egli rimane indifeso con le peggiori ansie, con le fantasie colleriche e distruttive e non riuscirà a controllare la sua naturale aggressività.
Gli adulti temono anche che i loro figli possano lasciarsi trascinare dalle proprie fantasie e/o che, esposti alle fiabe, finiscano per credere alla magia.
Ma ogni bambino, come ogni primitivo, crede naturalmente alla magia e cessa di farlo solo quando diventa grande, ad eccezione di chi non sia stato troppo deluso dalla realtà della vita per essere in grado di porre fiducia nelle sue ricompense… e il bambino deve riuscire a diventare adulto attraverso quel faticoso processo, da noi definito adolescenza, nel quale la saggezza dei nostri antenati collocava quei riti di iniziazione che furono poi trasposti in fiabe e in miti.
In passato i ragazzi inventavano da sé i giochi e le storie, attingendo dall’immenso patrimonio delle tradizioni popolari, oggi sono la tv ed i videogame a proporre loro creature sempre più tecnologiche e complicate, spesso dalla psicologia estremamente rudimentale, pericolosamente accentuata sulle opposte polarità di buono e cattivo. Il confronto con i personaggi della fiaba e del mito non può reggere perché, in essi, questa semplicistica dicotomia è invece solo apparente, in quanto in modo trasparente rivela ad un più attento osservatore, la sua caratteristica più sofisticata e interessante: l’ambivalenza.



Il valore dell’ambivalenza nelle fiabe; il fantastico come linguaggio dell’io interiore:

La scrittrice americana di fantasy Ursula K. Le Guin, nel suo interessante saggio “Il linguaggio della notte”, ricorda come la studiosa junghiana Marie Louise Von Franz abbia ben sottolineato la reale, apparente “stranezza” dei racconti popolari che molti adulti criticano perché, per la perdita di ogni legame con l’antica saggezza della civiltà contadina, non sono più in grado di comprendere.
“Non esiste infatti - commenta la scrittrice americana – “un modo “giusto” di comportarsi quando si è l’eroe o l’eroina di una fiaba. Non ci sono sistemi di condotta, non ci sono norme su ciò che un bravo principe deve fare e ciò che una brava bambina non deve fare. Di solito le brave bambine spingono le vecchie signore nei forni e poi vengono premiate? No, non in quella che noi chiamiamo “vita reale” almeno, Ma lo fanno nei sogni e nel mondo delle fiabe e del mito. E giudicate Grethel secondo le regole della virtù cosciente, solare è un errore perfetto e ridicolo. Nella fiaba anche se non esistono giusto e sbagliato, esiste una regola diversa a cui si addice meglio il nome di “convenienza”. In nessuna circostanza possiamo infatti affermare che è moralmente giusto ed eticamente virtuoso spingere dentro un forno una vecchia signora, ma, nelle circostanze della fiaba, possiamo convenire con completa convinzione che agire in tal modo può essere conveniente.
Perché, in quei termini, la strega non è una vecchia signora, né Grethel è una bambina. Entrambe sono fattori psichici, elementi della complessità dell’anima.
Grethel è l’anima bambina, arcaica, innocente, priva di difese; la strega èla vecchia arcaica, il possessore e il distruttore, la madre che ti nutre a biscotti e che si deve distruggere prima che… ti mangi come un biscotto, in modo che possa crescere diventare madre anche tu. Eccetera, eccetera. Qualsiasi spiegazione è parziale. L’archetipo è inesauribile. E bambini e ragazzi lo comprendono con la stessa completezza e sicurezza degli adulti, spesso con maggiore completezza, perché la loro mente non èstipata di mezze verità unilaterali e prive di ombre e con precetti morali convenzionali della coscienza collettiva.
Nella fiaba, quindi, il male non appare come qualcosa di diametralmente opposto al bene, ma come qualcosa di inestricabilmente intrecciato con esso. Nessuno dei due ha più valore dell’altro, né la ragione e la virtù umana possono separare l’uno dall’altro e scegliere tra essi. L’eroe e l’eroina è chi vede quello che è conveniente fare perché lui o lei vede “l’intero”, che vale sia più del bene che del male. In effetti il loro eroismo è la sicurezza che hanno. Essi non agiscono seguendo regole, semplicemente “sanno in che direzione andare”.
In questo labirinto in cui sembra bisogni affidarsi all’istinto cieco, sottolinea la Von Franz, esiste una, ed una sola “etica” costante: “Colui che si guadagna la gratitudine degli animali o viene da essi aiutato per qualsiasi ragione, ottiene invariabilmente la vittoria”. In altre parole il nostro istinto non è cieco. L’animale non ragiona ma “vede”. E agisce con sicurezza, agisce in modo giusto, conveniente. Ecco perché tutti gli animali sono magnifici. E’ l’animale dentro di noi, il primitivo, il fratello scuro, il doppio, l’anima-ombra ad essere la guida.
Spesso c’è una strana svolta in ciò, nei racconti popolari, una specie di mistero finale: l’aiutante-animale dice all’eroe: ”Quando avrai fatto tutto questo e questo con il mio aiuto, allora dovrai uccidermi, mozzarmi la testa.” E l’eroe deve avere una fiducia così totale nella sua guida animale da doverlo fare. La spiegazione della Von Franz è che, se si sono seguiti gli istinti animali abbastanza a lungo, bisogna sacrificarli in odo che il vero io, la persona completa, possa uscire rinato dal corpo dell’animale. Questa è la spiegazione della Von Franz, e sembra accettabile ma dubito che la cosa sia tutta qui, né uno junghiano qualsiasi pretenderebbe che lo fosse. Né il pensiero razionale né l’etica, infatti, possono spiegare questi strani livelli profondi della mente che forma immagini; persino se stiamo semplicemente leggendo una fiaba, dobbiamo abbandonare le nostre convinzioni ed affidarci alla guida di oscure figure, in silenzio…”
“…In molti racconti fantastici del XIX e del XX sec. – continua la scrittrice americana –la tensione tra bene e male, tra luce e oscurità viene tracciata in modo molto chiaro, come una battaglia…”
“…in essi, l’autore ha cercato di costringere la ragione a guidarlo là dove la ragione non può andare ed ha abbandonato la guida fedele e spaventevole che avrebbe dovuto seguire: l’ombra. Questi sono racconti falsi, razionalizzati semplicistici come le fiabe e i miti, invece, nella loro antica, profonda saggezza, non sono…”
“… Per molte persone che si occupano in modo serio e sincero dell’educazione morale dei bambini, il fantastico sarebbe un’evasione dalla realtà; non vedono la differenza trai vari Batman e Superman delle fabbriche di prodotti stupefacenti e gli archetipi senza tempo dell’inconscio collettivo, confondono la fantasia, che è una facoltà universale ed essenziale della mente umana, con l’infantilismo e la regressione patologica. Sembra che ritengano che le ombre siano qualcosa di cui ci si possa liberare facilmente, se solo possiamo accendere luci a sufficienza…
E così vedono l’irrazionalità, la crudeltà e la strana amoralità di racconti di fate e dicono: “Ma questo fa male ai bambini! Dobbiamo insegnare ai bambini a distinguere ciò che è giusto da ciò che sbagliato con libri realistici, che siano fedeli alla vita.”
Convengo che i bambini hanno bisogno e di solito desiderano fortemente che si insegni loro a distinguere ciò che è giusto da iò che è sbagliato, ma credo ce la narrativa realistica per l’infanzia sia uno dei mezzi con cui è più difficile farlo.
E’ difficile non rimanere impigliati nella superficialità della coscienza collettiva, nel moralismo semplicistico in proiezioni di vario tipo, cosicchè si finisce di nuovo col tirar fuori i buoni e i cattivi. O quella faccenda di “ una particella di bontà anche nel peggiore” che è una pericolosa banalizzazione del fatto che esiste, in ognuno di noi, un incredibile potenziale sia per il bene che per il male.
O gli scrittori si sentono incoraggiati a trarre vantaggio dal sensazionale, turbando il lettore bambino senza essere per loro conto coinvolti nella violenza della storia, cosa che è vergognosa, o escono fuori i “libri problematici”. Il problema della droga, del divorzio, dei pregiudizi razziali, della ragazze madri e così via, come se il male fosse un problema, un qualcosa che si possa risolvere, che ha una risposta, come un problema di terza elementare…”
“…Questo è evadere dalla realtà, questo porre il male come un problema, invece di quello ce è: ogni dolore e spreco e perdita e ingiustizia che incontriamo durante la nostra vita e che dobbiamo affrontare e vincere mille volte e ammettere, e con il quale dobbiamo convivere, se soltanto vogliamo vivere una vita umana.
Ma allora che cosa deve fare uno scrittore che scrive per i bambini?
Può presentare il male al bambino come un problema insolubile, qualcosa al cui riguardo né il bambino, né l’adulto possono far niente? Dare a un bambino una rappresentazione delle camere a gas o delle terribili carestie in India o di un genitore psicotico e dirgli: “Bene, bimbo mio, ecco com’è; che hai intenzione di fare?” è sicuramente immorale.
Se si suggerisce che esiste una “soluzione” per questi fatti mostruosi, si sta dicendo una menzogna al bambino. Se si sostiene che non esiste una soluzione, lo si opprime con un peso che non può ancora sostenere.
Una creatura giovane ha bisogno di protezione e difesa. Ma ha bisogno anche di verità. E mi sembra che il modo di parlargli con onestà e realismo, sia del bene che del male, sia parlargli di sé stesso. Del suo sé interiore, del suo sé profondo, il più profondo. Questo è qualcosa a cui può tener testa; per la verità, la sua occupazione durante la crescita è diventare sé stesso. Non può farlo se ha la sensazione che il compito sia disperato, né se viene indotto a pensare che non ci sia alcun compito.
Il bambino crescerà rachitico e deforme se è costretto a disperare o è incoraggiato con false speranze, se viene terrorizzato o se viene coccolato. Quello di cui ha bisogno per crescere è la realtà, la totalità, che oltrepassa tutti i nostri vizi e virtù.
Ha bisogno di conoscere; ha bisogno di conoscere sé stesso, di vedere sé stesso e l’ombra che proietta e imparare a controllarla e a farsi guidare da essa in modo che, quando avrà acquistato la sua forza e responsabilità di adulto nella società, sarà meno incline, forse a rinunciare per la disperazione che a negare ciò che vede, quando dovrà affrontare il male che viene compiuto nel mondo, e le ingiustizie e il dolore e la sofferenza che tutti devono sopportare….”
“… Il fantastico è il linguaggio dell’io interiore. - conclude la Le Guin - … Non pretenderò altro per la narrativa fantastica che dire che la ritengo il linguaggio adatto a raccontare storie ai bambini ed a altri. Ma lo affermo con sicurezza perché ho dietro di me l’autorità di un grandissimo poeta, che lo ha detto in modo molto più audace: “Il grande strumento del bene morale – ha detto Shelleyè la fantasia.”

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La fiaba o l’arte della sovversione:

Con “Chi ha paura dei fratelli Grimm?”, l’americano Franck Zipes traccia un profilo storico e critico del genere e analizza acutamente i multiformi significati che la fiaba ha assunto ed interpretato nel corso del tempo, nelle diverse società e culture, in relazione cioè al processo di civilizzazione dell’Occidente.
In questo approccio inusuale di analisi sociopolitica, egli in particolare pone l’accento sull’arte della sovversione che vede insita in essa, in quanto praticata attraverso l’innovazione e l’involuzione simbolica da tutti quegli scrittori, oggi definiti come “classici” che, a cominciare dai XIV-XVI secc. in Italia, e dal XVII sec. in Francia, per la prima volta la rielaborarono dalla forma orale nella scritta, via, via, fino ai nostri giorni, dai modelli imposti soprattutto dai fratelli Grimm nel XIX sec. ai tentativi di riforma della fiaba operati nella Germania della repubblica di Weimar e nazista, alle fiabe emancipatrici post belliche, a quelle, tipicamente americane, proposte nei film d’animazione di Walt Disney, alle più recenti del giapponese Hayao Miyazaki (“Il castello errante di Howl”), ecc.
Per meglio chiarire la comprensione delle origini della fiaba letteraria, egli cita Roland Barthes in “Grado zero della scrittura” e in “Mitologie” attraverso le parole di Fredric Jameson in “L’inconscio politico: il testo narrativo come atto socialmente simbolico”: per entrambi, infatti, l’opera letteraria individuale è un “atto simbolico” e pertanto “… deve essere compreso come risoluzione immaginaria di una contraddizione reale” .
Il Jameson, in particolare, individua l’ideologia non come qualcosa “che informi o investa una produzione simbolica; è piuttosto l’atto estetico ad essere in sé ideologico, e la produzione di una forma estetica o narrativa deve essere vista come un atto in sé ideologico, la cui funzione è di inventare “soluzioni” immaginarie o formali a contraddizioni sociali insolubili.” Pertanto ne consegue che si possa parlare di una singola fiaba per bambini come di un “atto simbolico” permeato dal punto di vista ideologico del singolo autore ed è importante qui ricordare che la narrazione per bambini non può considerarsi separata da quella per gli adulti in quanto originatasi in forma orale proprio per gli adulti e, da essi e per essi coltivata e diffusa come genere letterario nel seicento, fino a quando, e solo nel secolo successivo, non venne diffusa in forma stampata per l’infanzia.
La fiaba letteraria è emersa dall’appropriazione da quella orale, arcaica e popolare da parte di scrittori “colti” e dalla traduzione che essi ne operarono interagendo tra loro e con scrittori del passato e con narratori di folclore, all’interno della sfera pubblica della loro comunità.
Zipes ricorda come August Nitschke ritenesse che “… ogni comunità e società della storia possa essere caratterizzata dal modo in cui gli esseri umani si organizzano e percepiscono il tempo, qualcosa che dà vita a una attività dominante (chiamata anche linea di movimento). Le prospettive e le posizioni assunte dai membri della società verso l’attività dominante vanno a costituire una configurazione. Questa determina il carattere di un ordine sociale dal momento che l’organizzazione corporeo - temporale è assestata intorno ad un’attività dominante che informa gli atteggiamenti delle persone verso il lavoro, l’educazione, lo sviluppo sociale e la morte. Quindi la configurazione della società è lo schema di organizzazione e di riorganizzazione del comportamento in relazione a una percezione generalizzata. Nel racconto popolare l’organizzazione corporeo - temporale riflette l’eventuale intuizione di nuove possibilità di partecipazione all’ordine sociale o, al contrario, la sensazione che ci debba essere uno scontro là dove le possibilità di cambiamento non esistono. E’ questo il motivo per cui, in ogni nuova fase di civilizzazione, in ogni nuova epoca storica, i simboli e le configurazioni dei racconti venivano investiti di nuovo significato, trasformati o eliminati in risposta ai bisogni e ai conflitti degli individui all’interno dell’ordine sociale,. La struttura e l’organizzazione estetica del racconti derivano dalla percezione del narratore, o dei narratori, della possibilità della risoluzione dei conflitti sociali e delle contraddizioni oppure dalla necessità di un cambiamento.”
L’atto simbolico dello scrivere o riscrivere una fiaba o del produrla come opera teatrale o come film – conclude infatti Frank Zipes - è reso sempre problematico dal sorgere di interrogativi in relazione alla società e al nostro inconscio politico.
La fiaba, in sintesi, grazie alle sue proteiformi sembianze e possibilità, scavalca i secoli: da matriarcale si fa patriarcale, da pagana, cristiana, da orale e popolare in entrambe le accezioni del termine, si fa letteraria, da feudale e aristocratica. capitalista e borghese e così via…
Charles Perrault la vedeva come “moderna”, nel senso di capace di divenire storia, come storia nel suo divenire, attraverso innovativi atti simbolici.



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Approfondimenti:


Charles Perrault




Giovanbattista Basile:


Da giovane fu soldato mercenario al servizio della Repubblica della Serenissima, spostandosi tra Venezia e Candia, l'odierna Creta. In questo periodo, l'ambiente della colonia veneta dell'isola gli permise di frequentare una società letteraria, l'Accademia degli Stravaganti.
I primi documenti della sua produzione letteraria pervenutici sono del 1604 e sono costituiti da alcune lettere scritte come sorta di prefazione alla Vaiasseide dell'amico e letterato napoletano Giulio Cesare Cortese.L'anno seguente viene messa in musica la sua villanella Smorza crudel amore.
Rientrato a Napoli nel 1608, pubblica il suo poemetto Il Pianto della Vergine.
Nel 1611 prese servizio alla corte di Luigi Carafa, principe di Stigliano, al quale dedicò un testo teatrale, Le avventurose disavventure e successivamente seguì la sorella Adriana, celebre cantante dell'epoca alla corte di Vincenzo Gonzaga a Mantova, entrando a far parte della Accademia degli Oziosi. Curò fra l'altro la prima edizione delle rime di Galeazzo di Tarsia.
(Adriana Basile tenne il primato del canto nella penisola ai tempi in cui si impose la figura della virtuosa)

Nella città lombarda fece stampare madrigali dedicati alla sorella, e odi e, nel 1613 le Egloghe amorose e lugubri, seconda edizione riveduta ed ampliata de Il Pianto della Vergine ed il dramma in cinque atti La Venere addolorata.
Tornato a Napoli, fu governatore di vari feudi per conto di alcuni signori meridionali.
Nel 1618 uscì L'Aretusa, un idillio dedicato al principe Caracciolo di Avellino e l'anno seguente un testo teatrale in cinque atti Il Guerriero amante.Morì a Napoli, nel 1632.
L'Italia possiede nel Cunto de li cunti del Basile il più antico, il più ricco e il più artistico fra tutti i libri di fiabe popolari... »(Benedetto Croce, premessa a Lo cunto de li cunti, Laterza, Bari, 1925)
Scritta in lingua napoletana, quest'opera , secondo la prolissa moda barocca, si declinava in altri nomi: Le muse napolitane, Lo trattenemiento de peccerille e infine il Pentamerone
Quest'ultimo titolo risulta più appropiato in quanto l'opera si ispira evidentemente alla raccolta di novelle (Decameron) di Boccaccio, ma con alcune differenze: le giornate sono la metà (5 anziché 10) e ridotto alla metà è anche il numero delle novelle (50 anziché 100, tra cui 49 raccontate dalle narratrici più 1 che fa da cornice alla storia); i narratori sono dieci vecchiette caratterizzate da difetti fisici.
Al posto delle elette gentildonne favolatrici, Pampinea, Fiammetta, Neifile, qui troviamo Zeza sciancata, Cecca storta, Meneca gozzuta, Tolla nasuta, Popa gobba, Antonella bavosa, Ciulla musuta, Paola scerpellata, Ciommetella tignosa e Iacova squarquoia: un vero e proprio congresso di lamie.
È vero che costoro, scelte dal re di Vallepelosa come le migliori della città, essendo le più svelte e linguacciute, favoleggiano nei giardini reali. Ma che giardini reali son questi! Invece di alberi solenni, una semplice pergola d'uva: il giardino reale si riduce alle proporzioni d'un modesto orto suburbano. E che re son quelli dei «cunti» del Basile! Che cosa inventa uno di essi per distrarre la figlia che non sapeva ridere? Niente di meglio che schizzare con una fontana d'olio le persone che passano dinanzi alla reggia.
Trovata allegra degna di quello che doveva essere un re napoletano, il re Lazzarone, che per mettere il buonumore addosso alla delicata sua sposa, le toglieva di sotto la sedia facendola cadere. (Il che dimostra che Ferdinando I fu un prodotto inevitabile di quello stesso ambiente che produsse le fiabe del Basile.)
Un altro re deve abitare in un ben curioso palazzo, se non può fare uno sbadiglio senza irritare due vecchiacce che vivono in un giardino su cui guardano le sue finestre. Un altro se ne sta affacciato alla finestra per trovar marito alla figlia; e v'è un principe che rapisce la bella non già su un cavallo alato, ma su un modesto asino, e ve n'è un altro che fa alle sassate coi monelli di strada. »(Mario Praz, Il «Cunto de li cunti» di G.B.Basile, in Bellezza e bizzarria. Saggi scelti, Mondadori, Milano, 2002)
Più che novelle, le storie narrate da Basile sono fiabe tratte in genere dalla tradizione popolare, che l'autore trasforma però in prodotti letterari, con l'uso di un dialetto più colto di quello effettivamente parlato e con l'inserimento di notazioni ironiche e commenti moralistici.
L'opera di Basile fu una fonte di ispirazione per altri autori di fiabe e favole, come Charles Perrault o i fratelli Grimm.
Infine la scelta di scrivere in lingua napoletana corrisponde alla tendenza propria dell'età barocca di sperimentare nuovi e più attuali modi espressivi.


(Chiaramente ispirato al Basile,il film "C'era una volta" di Francesco Rosi.)



L. Frank Baum:A Lyman Frank Baum, generalmente abbreviato in L-Frank Baum (Chittenago, 15 maggio 1856 – Glendale, 6 maggio 1919)si deve il romanzo più celebre della letteratura per bambini americana, Il meraviglioso mago di Oz.

Nel luglio del 1888, Baum si trasferì ad Aberdeen, nel Dakota del Sud, dove aprì un negozio, il "Baum's Bazaar". L'abitudine di Baum a far sistematicamente credito ai clienti, tuttavia, portò presto il negozio alla bancarotta. Tornando alle sue antiche passioni, Baum fondò un nuovo giornale, The Aberdeen Saturday Pioneer, del quale curava personalmente la rubrica "Our Landlady".
La descrizione che Baum avrebbe fatto anni dopo del Kansas, nel "Meraviglioso Mago di Oz", è quindi in gran parte basata sui suoi ricordi delle terra arida del Dakota del Sud.Anche il Pioneer fallì (nel 1891), e i Baum si trasferirono a Chicago, dove Frank si mise a lavorare come reporter per l'Evening Post e, contemporaneamente, come venditore porta-a-porta di porcellane (e Doroty, nel libro, entrerà poi in una chiesa tutta di porcellana!)
La svolta avvenne nel 1897, anno in cui Baum pubblicò Mother Goose, una raccolta di filastrocche di Mamma Oca trascritte in prosa e illustrate da Maxfield Parrish. Il libro ebbe un discreto successo, e Baum poté abbandonare il suo lavoro di venditore ambulante.
Nel 1899, in collaborazione con l'illustratore W. W. Denslow, Baum pubblicò Father Goose: His Book, una raccolta di poesie nonsense, che divenne il libro per bambini più venduto dell'anno
Nel 1900, Baum e Denslow pubblicarono The wonderful wizard of Oz che ebbe un successo trionfale; apprezzato dalla critica e fu bestseller per ben due anni consecutivi.
Sulla scorta di questo successo, Baum realizzò negli anni successivi ben tredici romanzi ambientati nel Paese di Oz.

Due anni dopo la pubblicazione del Mago di Oz, Baum e Denslow si unirono al compositore Paul Tietjens e al direttore d'orchestra Julian Mitchell per realizzare un adattamento del romanzo in musical. Vi recitavano Dave Montgomery (nel ruolo del Boscaiolo di Latta) e Fred Stone (lo Spaventapasseri), divenuti celebri proprio con quello spettacolo. andò in scena a Chicago nel 1902 e a New York l'anno successivo, diventando un grande successo di Broadway. Il testo fu rimaneggiato da Baum, che ne fece una versione più orientata a un pubblico adulto, con numerosi riferimenti politici.
Baum continuò a scrivere romanzi sul Paese di Oz, sebbene a più riprese dichiarasse di voler smettere e dedicarsi a romanzi con altre ambientazioni . Su richiesta del pubblico e dei bambini, comunque, alla fine Baum tornava sempre alla sua serie più fortunata.
I primi film di Oz furono prodotti da Baum (1910 e 1914). In una versione del 1925, Oliver Hardy recitava la parte del Boscaiolo di Latta.
La versione più nota è però quella del 1939, Il mago di Oz (The Wizard of Oz), con Judy Garland nei panni di Dorothy.
L'adattamento cinematografico più recente, del 2005, è un musical con i personaggi del Muppet Show come protagonisti, dal titolo I Muppet e il mago di Oz.
Il film di fantascienza Zardoz di John Boorman, del 1974 è, per spunti e trama, legato al romanzo; lo stesso nome "Zardoz" è una contrazione di "Wi-zard of Oz".
Il film The Wiz (The Wiz. I'm Magic, 1978) è la rilettura in chiave blaxploitation edulcorata della favola di Oz; è interpretato fra gli altri da Diana Ross e Michael Jackson.
Un errore molto comune nell'interpretazione del Meraviglioso Mago di Oz consiste nel leggerlo come parabola sul populismo.
In realtà come scrive di lui Frank Zipes (in "Chi ha paura dei fratelli Grimm?") "... egli era della stessa stoffa di Mc Donald e di O. Wilde. Un sognatore, un idealista un riformatore, credeva fermamente nella perfezione umana ma nonconcepiva che l'umanità perfetta potesse essere realizzata attraverso il conformismo ad una società che permetteva o era responsabile, di condizioni degradanti per la gente comune. Come loro, egli seguì le orme di Ruskin e Morris dotando la sua arte di scopo sociale...." e scrive ancora: "... Ci sono
ben poche fiabe utopiche della lunghezza di un intero volume, qual'è Il meraviglioso mago di Oz, che sono riuscite a rimanerefamose al punto di diventare dei classici. Questo si deve, forse, all'ingegnoso stile narrativo che illumina una via d'uscita nel grigio mondo di tutti i giorni e risveglia le nostre energie creative suggerendo che possiamo diventare ciò che vogliamo senza scendere a compromessi e rinunciare ai nostri sogni.... "


Andreas Helmuth Ende(Garmisch-Partenkirchen, 12 novembre 1929–Stoccarda,28 agosto1995) è stato uno scrittore tedesco universalmente noto soprattutto per i romanzi Momo e La storia infinita.

Suo padre, il pittore surrealista Edgar Ende, aveva un'attività artistica inizialmente ben avviata, che però incontrò nel corso degli anni trenta diverse difficoltà, a causa dell'imporsi del regime nazista, finché, nel 1936, fu costretto a sospendere qualunque esposizione. L'anno successivo tutte le sue opere furono confiscate dalle autorità in quanto "arte decadente".
Gli anni precedenti la guerra furono per Michael anni di crescita e studio, funestati nel 1937 dalla morte di un suo intimo amico, Willie: sulla sua immagine lo scrittore modellò, in seguito, l'aspetto di Bastiano, il protagonista de La storia infinita. Nel 1941, una sospensione scolastica lo spinse a pensieri suicidi, che riuscì a superare. L'anno successivo Michael evitò fortunosamente l'ingresso nella Hitler Jugend.Nel 1945 Michael venne forzatamente arruolato per l'estrema difesa della Germania nazista, ormai prossima alla disfatta totale. Dopo un addestramento di un sol giorno, fu mandato al fronte, dove vide morire tre suoi compagni nei primissimi combattimenti. Michael gettò a terra il fucile e scappò, percorrendo a piedi, lungo tutta la notte, ottanta chilometri, nel tentativo di raggiungere Burach, dove viveva sua madre. Entrò quindi in un'organizzazione antinazista (Fronte per la Baviera Libera) sino al termine della guerra.
Gli anni seguenti la guerra furono segnati, per Michael, ormai quasi maggiorenne, dall'incontro con l'Antroposofia di Rudolf Steiner e quindi con il teatro. La sua ambizione divenne quella di poter essere attore. Scrisse opere teatrali e recitò in ruoli secondari, senza tuttavia ottenere grande riscontro.
In seguito Michael ottenne un lavoro presso una compagnia radiofonica e nel mentre, sotto consiglio di un amico, scrisse nel 1958 il suo primo libro, Le avventure di Jim Bottone, che venne tuttavia rifiutato dall'editore cui lo spedì. Due anni dopo, nel 1960, riuscì a ottenere la pubblicazione dall'editore Tienemanns. Il successo del libro, primo premio nel 1961 per la letteratura per l'infanzia, permise a Michael di ottenere la stabilità economica.
Nel 1979 completò e pubblicò La storia infinita. L'enorme successo del libro e la gran quantità di premi ricevuti, con una conseguente riscoperta di Momo da parte di pubblico e critica, portarono a Michael grande notorietà, la quale, tuttavia, risultò troppo pesante per l'autore, che ne risentì fisicamente e mentalmente.
Nel 1982 firmò il contratto per la versione cinematografica de La storia infinita. Apprese però solo in seguito delle enormi modifiche che produzione e regista volevano apportare alla storia, quando ormai era troppo tardi per opporsi.Intentò una causa alla produzione perché fosse eliminato il suo nome dai titoli di testa, causa che, nel 1985, perse.
Nel 1986 venne completata la versione cinematografica di Momo (cui sarebbe seguita quella postuma a cartoni animati di Enzo D'Alò, Momo alla conquista del tempo con la colonna sonora di Gianna Nannini).
La grande tematica sviluppata da Ende, cardine del libro La storia infinita, è il potere creativo assoluto della fantasia, matrice di tutte le storie possibili. La fantasia ora è una forma di salvezza da un mondo arido, divorato da un'economia impersonale e calcolistica (Momo); ora è una porta d'accesso quasi mistica a mondi ulteriori che vivono in simbiosi con la realtà, due lati di uno specchio che non possono fare a meno l'uno dell'altro; ora è una sorta di possessione allucinante, che dissolve la stessa realtà in un sogno tra i sogni, il mondo concreto inglobato dalla visione, ridotto solamente a una delle infinite storie possibili.
Così in Momo la fantasia è una sorta di elisir in grado di salvare il mondo, di insufflare la vita in un tempo che rischia di divenire meccanico, morto. Così anche ne La storia infinita, dove tuttavia non è solo la fantasia (ipostatizzata nel regno chiamato appunto Fantàsia) ad essere minacciata dal nulla (nella prima parte del libro), ma è essa stessa a potersi trasformare in una minaccia, quando al servizio di un delirio egoico di onnipotenza (nella seconda parte del libro). Viene comunque confermato il suo valore creativo e di sana fuga da un mondo spesso difficile da vivere e, come tale, da ritrasformare, contro quanti, anche nel corso della storia della cultura, hanno invece ritenuto la fantasia stessa un fattore di irresponsabilità.
Rintracciabile in Ende è anche la tematica del nichilismo: la perdita di speranza degli abitanti di Fantàsia (che si gettano nelle braccia del Nulla ne La Storia infinita) e il tecnicismo disumanizzante che ruba il tempo in Momo sono riferimenti alla temperie nichilistica, dove sia l'angoscia che la transumanità sono conseguenze chiave della perdita dei valori di riferimento. Lo scrittore tedesco sembrerebbe proporre come soluzione l'affidarsi alla fantasia, ma egli come il filosofo Heidegger è cosciente che per volontà non si possa superare il nichilismo, che trae il suo fondamento proprio nella volontà di potenza: per questo Bastiano, alla ricerca della propria volontà, rischia di rimanere prigioniero del romanzo.
Completamente diversa la questione ne Lo specchio nello specchio o La prigione della libertà, la sua ultima opera, dove si palesa la lezione di Borges: la dialettica tra reale e irreale, tra sogno e veglia, è presentata come conflitto drammatico, angosciante, lacerante, solo a tratti sereno, tendente verso l'astratto, quasi una pulsione di morte nirvanica.

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