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"Il fantastico è il linguaggio dell’io interiore.Non pretenderò altro per la narrativa fantastica che dire che la ritengo il linguaggio adatto a raccontare storie ai bambini ed a altri. Ma lo affermo con sicurezza perché ho dietro di me l’autorità di un grandissimo poeta, che lo ha detto in modo molto più audace: “Il grande strumento del bene morale – ha detto Shelley – è la fantasia.”

Ursula Le Guin

mercoledì 15 dicembre 2010

"Alice a Praga" ovvero "" LA NOTTE DI NATALE NEL GABINETTO DELLE MERAVIGLIE DI PRAGA "

venerdì 10 dicembre 2010

Dedicato ad Angela Carter (Introduzione a "Alice a Praga"




Dedicato ad Angela Carter


Con gli occhi densi di saggia follia e un sorriso enigmatico sulle labbra come un’inquietante statua gotico/vittoriana, Angela Carter è presente in molte delle strade e dei crocicchi della mia anima letteraria e, simile a uno strano Giano al femminile, può presentarmi anche due facce, sempre incompatibili, spesso incoerenti, ma pur tuttavia perfettamente tra loro simmetriche.
Questa regina delle ombre (e intendo ombre anche stranamente luminose!) e dell’ambivalenza, questa narratrice impagabile dalla prosa modernissima e volutamente densa di alti simboli, questa eccentrica, multiforme signora inglese ha attinto infatti a piene mani dall’inesauribile patrimonio favolistico arcaico e classico una calda materia palpitante, intrisa di sogno e quindi di inconscio, al di là delle apparenze più junghiana  forse che freudiano, per coniugarla - cito qui le precise parole di Salman Rushdie - con Baudelaire, Poe, Shakespeare e per poi surrealisticamente scomporla e sminuzzarla con freddo e razionale accanimento.
I suoi racconti, le sue fiabe si innalzano così su simili magmatiche fondamenta e, mattone su mattone, arrivano a bucare il cielo con aeree torri acuminate.
L’incontro con Angela Carter non può che turbare e incidere nel profondo, in particolare chi, come me, è attratto da fiaba, teatro e psicologia infantile, entità polivalenti, sfaccettate e misteriose che insieme possono sincreticamente comporre una temibile triade demoniaca.
La Carter scrisse anche diversi adattamenti teatrali per i suoi racconti ed amò particolarmente il teatro radiofonico (di cui solo coloro che come lei, e come me, sono nati prima degli anni 50, possono ricordare tutto il sonoro splendore). Ma in realtà “tutti” i suoi racconti sono squisitamente teatrali nell’impostazione, nella forma e nella sostanza. Gli scenari di alcune fiabe mutano addirittura agli occhi stessi del protagonista che li attraversa inaspettatamente in scenari di cartone, scenari di teatro.
La predilezione poi della Carter per il teatro pitocco, squallido e affascinante come una pozzanghera dopo un acquazzone, quel teatro di strada con tutto il suo otto/novecentesco armamentario di buratti & pagliacci tristissimi, ottovolanti da Luna Park, fenomeni da baraccone e tendoni a righe svolazzanti nel vento di tramontana, è un altro importante aspetto della sua personalità, un’altra,vivida sfaccettatura del suo mondo interiore. E lo è da sempre anche del mio (grazie Verlaine! Grazie, Palazzeschi! Grazie Chaplin, Bradbury, Fellini!) e di quello, credo, di tutti coloro che non sono riusciti ancora del tutto a mollare gli ormeggi dalle acque dell’ infanzia, non sono riusciti ancora del tutto a dimenticare.

La vera magia di ”Alice, un Natale, a Praga”, una fiaba giocata tutta sulla magia, si condensa nel gioco surreale e prezioso di contrasti: folclore, superstizione e problemi di matematica, girandola di fuochi d’artificio di razionalità e nonsense, guglie d’oro, barocco di Boemia e banane ondeggianti sulla testa di una ormai per noi preistorica Carmen Miranda, la cui sfacciata sensualità annienta le vaporose pruderie vittoriane dell’Alice di Carrol. E, anche qui, riecheggia il teatro di strada: il Dottor Dee, dai fasti secenteschi delle rispettive corti di Elisabetta I e Rodolfo in cui storicamente visse, sembra precipitare in quello strano circo noir che appare in certi momenti quel meraviglioso  gabinetto delle meraviglie di Praga e da mago, scienziato, alchimista, regredire a imbonitore, prestigiatore da strapazzo, addirittura pagliaccio.


Del resto, sembra suggerirci la diabolica scrittrice dietro le quinte, le sue creature, servitori e schiavi, quei meravigliosi, preilluministici automi, non sono forse altro che buratti, povere marionette tremanti di freddo e di paura, le cui balbettanti, intirizzite parole non riescono a nascondere nel loro fondo l’eco di una voce cavernosa... e melliflua. E doppia...
 “Double-face”, signori e signore! Proprio come ci è lecito immaginare la voce di qualunque “creatore” che si rispetti. E ciò naturalmente è da intendersi per qualsiasi “mondo creato” si voglia prendere in considerazione. 
Tutto questo scottante materiale è stato messo nel crogiuolo e mescolato da me, per i miei ragazzi, per i miei giovani attori e per il mio giovane pubblico di cui volevo saggiare la sopravvivenza delle capacità immaginative ed interpretative, misurare la temperatura corporea dinnanzi a qualcosa di infinitamente diverso, articolato, profondo, stratificato, da ciò che di solito oggi passa loro il convento (la tv, la scuola, la famiglia, la società in cui hanno la ventura di vivere).
Dal calderone è riaffiorata, mi è riaffiorata, un’Alice sempre più isterica nelle sue certezze e consapevolezze, che incombe sul Dottore e su tutto e, nel meraviglioso Gabinetto, dapprima inconsapevolmente, poi con lucida e crudele determinazione, gli scatena un sabba infernale e danzante.



Che il valzer sia stato in fondo una danza demoniaca è oggi un’opinione abbastanza comune tra coloro che ne hanno analizzato i turbinosi ritmi e l’entità del contagio che travolse per un secolo gran parte del mondo occidentale. Niente altro che il valzer quindi poteva scaturire dai meandri della mia immaginazione, stimolata meglio di una sniffata di cocaina, da Angela Carter... e il valzer più consono alla situazione, credo: “ La donna è mobile qual piuma al vento/ mutaaaaa… ”


L’immagine da una foto, bellissima tecnicamente, della “mia” Alice che, sul punto di scatenare la danza infernale tenendosi le lunghe gonne azzurrine, letteralmente vola, è per me impagabile nel rappresentare emblematicamente quello che è successo alla fine. 
Alla fine, intendo dire, non solo della fiaba teatrale, ma anche della sua stessa messa in scena.
L’ impatto col demoniaco e col valzer è stato travolgente per i miei stupitissimi attori, per il mio pubblico, dapprima sbigottito, poi esilarato, e pure per me stessa che ne ero almeno consapevole: siamo lievitati.
Grazie Angela!



APPROFONDIMENTI:
















lunedì 6 dicembre 2010

La Cenerentola di Gioachino Rossini

La Cenerentola
o sia La virtù in trionfo

Dramma giocoso in due atti

Musica di Gioachino Rossini
Libretto di Jacopo Ferretti


Personaggi:

DON RAMIRO, Principe di Salerno
DANDINI, suo cameriere
DON MAGNIFICO, barone di Montefiascone, padre di
CLORINDA, (e di)
TISBE
ANGIOLINA, sotto il nome di CENERENTOLA, figliastra di Don Magnifico
ALIDORO, filosofo, maestro di Don Ramiro
Dame che non parlano
Coro di cortigiani del Principe


In un salone del decadente palazzo baronale di Don Magnifico, Angelina, sua figliastra da tutti soprannominata Cenerentola, è intenta ai lavori più umili mentre le sue due sorellastre, Clorinda e Tisbe, si stanno pavoneggiando davanti allo specchio.
La fanciulla intona una malinconica canzone (“Una volta c’era un re”), quasi presaga del suo futuro destino, ma subito viene rimbrottata dalle cattive sorellastre che la tiranneggiano.
All’improvviso bussa alla porta del palazzo Alidoro, precettore del principe Don Ramiro. Alidoro si è presentato travestito da mendicante per saggiare il cuore delle tre fanciulle che abitano nel palazzo (il principe suo padrone vuole infatti prender moglie e cerca una sposa bella sì, ma soprattutto buona e virtuosa). Cenerentola lo accoglie con affetto, scatenando l’ira delle sorelle che invece lo cacciano in malo modo.
Poco dopo alcuni cavalieri annunciano la visita del principe in persona. Le sorellastre, in grande stato di agitazione, corrono ad avvertire il loro padre, Don Magnifico, il quale, risvegliatosi da un sogno premonitore (“Miei rampolli femminini”) le incita a prepararsi per accogliere degnamente il principe.



Nel frattempo è Don Ramiro stesso ad arrivare di soppiatto nella casa di Don Magnifico. Egli ha scambiato le proprie vesti con Dandini, suo scudiero, per meglio conoscere, e scegliere in assoluta libertà, la sua futura sposa.
Sopraggiunge Cenerentola, affacendata nei lavori domestici. Alla vista di Ramiro ne è dapprima spaventata, quindi turbata. Fra i due giovani scoppia il classico ‘colpo di fulmine’ (“Un soave non so che”).



Annunciato da un coro scherzosamente pomposo, giunge Dandini travestito da principe (“Come un’ape nei giorni d’aprile”). Tutta la famiglia di Don Magnifico non si accorge del tranello e lo accoglie con grande deferenza. Egli reca l’invito a un ballo a corte che viene naturalmente accettato con grande entusiasmo.
Mentre tutti, tranne Cenerentola, si avviano al palazzo, la fanciulla implora il patrigno di condurre anche lei alla festa (“Signor, una parola”). ma don Magnifico la respinge brutalmente.
Alidoro, che ha assistito a tutta la scena, decide commosso di aiutarla (“Là del ciel”).



Nel palazzo del principe, Dandini e Ramiro discutono sulle figlie del barone (“Zitto zitto, piano piano”), quando improvvisamente sopraggiunge una splendida dama in incognito. È Cenerentola, velata e splendidamente vestita, a fare la sua apparizione fra lo stupore generale (“Parlar, pensar, vorrei”).
Don Magnifico teme di aver riconosciuto nella bella incognita Cenerentola, ma è comunque convinto che il principe si deciderà per una delle sue due figlie (“Sia qualunque delle figlie”). Cenerentola, intanto, inseguita da Dandini che lei crede essere il vero principe, dichiara di essersi innamorata dello scudiero.
Don Ramiro, che ha udito tutto, è al culmine della gioia ma la fanciulla lo allontana lasciandogli un braccialetto. Egli dovrà cercarla, riconoscerla e «allor... se non ti spiaccio... allor m’avrai». Don Ramiro decide finalmente che è il momento di porre fine alla girandola dei travestimenti. Riprende il proprio ruolo di principe e si mette subito alla ricerca della bella sconosciuta (“Sì, ritrovarla io giuro”). Pertanto, quando poco dopo, quando Dandini è costretto a informare don Magnifico di essere un semplice scudiero, il furore del barone esplode in pieno.
Din Magnifico rientra furibondo a casa con le due figlie e, quando giungono a palazzo, trovano, come sempre seduta accanto al fuoco, Cenerentola che canta la sua malinconica canzone.
I tre vorrebbero sfogare la loro rabbia sull’innocente fanciulla, ma improvvisamente scoppia un furioso temporale, durante il quale, per merito di Alidoro, la carrozza del principe si rovescia ad arte proprio quando passa davanti alla casa del barone.



Fa quindi il suo ingresso nel palazzo di don Magnifico il vero principe, Don Ramiro.

Fra lo stupore e l’imbarazzo generale, egli riconosce in Cenerentola la dama misteriosa del ballo e la chiede in sposa (“Questo è un nodo avviluppato”). Così la virtuosa Cenerentola corona il suo sogno d'amore e ascende per di più al trono in un tripudio di gioia.
Perdonarà il patrigno e le sorellastre che, pur sempre stizzite, si chinano ai suoi piedi.