C'erano una volta un marito e una moglie in una bella casina, di cui una finestra dava sull'orto delle meraviglie che apparteneva a delle fate.
Ora dovete sapere che questa moglie aspettava un bambino e così un bel giorno di primavera s'affaccia alla finestra per rallegrarsi del verde smeraldino e respirar l'aria pura e vede... vede un prato di prezzemolo, ma un prato di prezzemolo... insomma, non sto a dirvi: il più bello! Non poteva resistere di certo per la voglia che l'era venuta all'improvviso di papparselo! Attese allora di vedere andar via le signore fate, come ogni giorno usavano, a farsi una passeggiatina sul corso, prese una scala di seta, si calò giù e si mise a mangiarsi il prezzemolo a tutto spiano. Mangia, mangia, finché poi si fa tardi e "Se tornassero le fate?" pensa la donna . Così risale per la scala, chiude la finestra e via! Poi ogni giorno si mette a far così perché non ne poteva proprio fare a meno!.
Un giorno, le fate passeggiavano in giardino e:
"Ditemi un po', care sorelle,'" disse la più bella, che l'aveva i capelli tutti come fili d' oro fino "non vi par che manchi del prezzemolo?"
"E ne manca anche tanto!"Le risposero in coro le altre, tutte preoccupate "Povere noi! Qui, c'è sotto lo zampino d'un ladro! E che si fa se il nostro orto delle meraviglie s'impoverisce? O che figura ci facciamo poi con le altre fate?"
"Ve lo dico io che si fa, carine,"dice la più furbetta che l'aveva i capelli rossi proprio come fiamma accesa "Usciremo tutte fuori, come per farci la nostra solita passeggiata sul corso, ma una di noi invece se ne starà nascosta dietro la siepe di bosso; sicché, se c'è qualcuno che viene a mangiare, lo vede e poi lo pigliamo."
Detto, fatto: una delle fate rimase fuori a far la posta e le altre a passeggiare .
Quelle svoltano l'angolo e la nostra donna, che sbirciava dalla finestra, scende giù lesta per mangiare, e mangia; poi, proprio mentre stava per ritornarsene su per la scaletta, la fata che l'era nascosta salta fuori dal bosso e le si para dinnanzi tutta furibonda, tanto che le trecce viola le schiocchiavano attorno come serpi:
"Oh briccona, briccona!" dice, "T'ho scoperta, eh?"
"Abbiate pazienza." dice quella poverina, che non se l'aspettava, "Io sono gravida, cara la mia signora, e avevo questa voglia...".
"Ebbene" dice la fata, "ti perdono. Ma senti, si fa un patto: se ti nasce un bambino, dovrai chiamarlo Prezzemolino, se sarà bambina, le darai nome Prezzemolina; comunque, quando sarà grande, ce lo prenderemo noi, maschio o femmina che sia! Sarà nostro, via, noi non abbiamo bambini, e tu te ne puoi fare un altro!"
Figuratevi quella poveretta! Proruppe in un pianto a dirotto che non si poteva più consolare e piangendo, diceva: "Malandrina la mia gola, mi sei costata assai!"
Anche il marito, quando lo seppe (ché lei non si era sentita di nascondergli il fattaccio), non smetteva più di rimproverarla: - «Golosaccia! Hai visto che succede, a rubar prezzemolo?"
Poi partorì una bambina ch'era proprio bellina, bellina, e la chiamarono Prezzemolina. Le fate non si fecero punto vive, neppure per le congratulazioni o il corredino, e lei dopo un po' pensò che forse l'era stato tutto uno scherzo, per farle smettere di rubare nell'orto, appunto, così si rassicurò e, alla fine, persino ne domenticò.
Ma quando Prezzemolina fu grandicella, la si mandò a scuola come gli altri bambini e, mentre passava davanti al cancello dell'orto, le fate sbucarono fuori e le fecero complimenti e mille vezzi, poi le dissero:
"Bambina, dì alla tua mamma, che si ricordi di quella roba."
In casa la donna era tutta in faccende,;la bambina entra e le dice: "Vi dicono le signore dell'orto di non scordarvi quella cosa."
Quella cucinava e le risponde "Non mi seccare che sto facendo la ribollita"
"Ma mamma, tu non mi ascolti..." dice Prezzemolina "le signore qui accanto, che son tanto gentili vogliono una risposta"
E la mamma che era sovrappensiero, le fa: "Dì loro che se la prendano!"
Il giorno dopo la bimba va a scuola e poi torna, e le fate al cancello son di nuovo tutte vezzi e moine, e le chiedono: ""E che ti disse allora la tua mamma ?"
"Mi disse che potete prendervela, quella roba."
"E allora vieni, vieni che sei tu la roba che vogliamo!" le urlano in coro quelle maledette e le saltano addosso e se la portano in casa in quattro e quattr'otto!
Urli senza fine, questa bambina: lo credo io!
Lasciamo questa bambina e torniamo alla madre, che passan ore e non la vede tornare. La si ricorda d'aver detto alla figlia che la prendino quella roba:
- «Oh Dio, mi son tradita! Ora la mia bimba dolce l'é perduta! Ahi, Prezzemolia mia, la mia bambina!» - E si mise a letto dal gran dolore.
Intanto la Prezzemolina era nella casa delle signore dell'orto, bellissima.
Si stava consolando a guardar quelle altre meraviglie, che scendono la scala tre fate, tutte scapigliate perché si stavano pettinando e avevano ancora il pettine in mano. Aproeno una porta e le dicono :
- «Su , Prezzemolina, vien qua, la vedi questa stanza nera nera? Noi la ci teniamo il carbone, la brace, e ora deve esser pulita. Come si torna, la deve essere tutta bianca come il latte e dipinta con tutti gli uccelli dell'aria, altrimenti, altrimenti noi sai che si fa? Ti si... mangia!» -
Come volete che la facesse questa bambina? Le vanno via quelle maledette e la bambina si mette a piangere, piangi ch'io piango, singhiozzando, e non si poteva chetare.
Dunque picchiano alla porta: lei va a vedere e crede che sian le fate; apre e vede Memè, che era il loro cugino.
«Che hai tu, Prezzemolina, che tu piangi?» dice
- «Piangereste anche voi» - risponde la bambina - «Vedete questa stanza? Quando tornano le mie signore, da nera così dev'esser bianca e dipinta di tutti gli uccelli dell'aria, altrimenti quelle mi mangiano.» -
«Se tu mi dài un bacio» - dice allora Memè, - «te la imbianco io in un momento questa stanzaccia e, a tutti gli uccelli del cielo, ci aggiungo quelli del paradiso!» -
Ma la Prezzemolina era una bimba furba e prudente e dice, tutta sostenuta :
- «Preferisco dalle fate esser mangiata che da un uomo esser baciata!» -
Dice il Memè: - «L'hai detto tanto benino che meriti la grazia!» -
Batte la bacchettina e diviene la stanza tutta bianca e tutta uccelli, come avevan detto lquelle.
Dunque Memè va via e tornano le fate; dicono:
- «L'hai fatto, Prezzemolina?» -
«Sissignore, vengano a vedere.» -
Le fate le si guardano in viso tutte esterefatte:
- «Eh, Prezzemolina, c'è stato qui Memé, per caso?» -
Ma la furbetta risponde pronta :«Non conosco alcun Memè, nè la mia bella mamma che mi fè!» -
Dunque la mattina dopo le fate nell'orto si inquietano:
- «Come si fa?» - dicono - «Qua non ci riesce di mangiarla.»
"Aspetta me!" dice una che l'aveva tutti i capelli ricciolini color pisello -" Ora le dico una cosa e poi così ce la mangiamo...»
- «Prezzemolina! Prezzemolina!»- chiama
«Cosa comandano?» -
- «Domani mattina devi andare dalla fata Morgana e devi dire la ti dia la scatola del Bel-Giullare.»
- «Sissignore» - risponde la Prezzemolina .
Eccoti la mattina la si mette in viaggio, la ragazza. E viaggia.
Cammina, cammina, incontra una vecchia donna .
- «E dove vai» - la dice - «bella bambina?» -
«Vado dalla fata Morgana a prendere la scatola del Bel-Giullare.»
- Ma ti mangerà, sai, poverina?»
- «Meglio per me» - dice - «così la sarà finita.» -
«Tieni» - dice la vecchia- «queste due pentole di lardo. A casa del Bel Giullare tu troverai due porte che si battono insieme. Ungile tutte e tu vedrai che ti lascian passare.» -
Eccoti la bambina davanti alla casa: vede queste porte e le unge tutte da capo a piede e loro la lascian passare, gua'. ffffffff....
- «Oh Dio, mi son tradita! Ora la mia bimba dolce l'é perduta! Ahi, Prezzemolia mia, la mia bambina!» - E si mise a letto dal gran dolore.
Intanto la Prezzemolina era nella casa delle signore dell'orto, bellissima.
Si stava consolando a guardar quelle altre meraviglie, che scendono la scala tre fate, tutte scapigliate perché si stavano pettinando e avevano ancora il pettine in mano. Aproeno una porta e le dicono :
- «Su , Prezzemolina, vien qua, la vedi questa stanza nera nera? Noi la ci teniamo il carbone, la brace, e ora deve esser pulita. Come si torna, la deve essere tutta bianca come il latte e dipinta con tutti gli uccelli dell'aria, altrimenti, altrimenti noi sai che si fa? Ti si... mangia!» -
Come volete che la facesse questa bambina? Le vanno via quelle maledette e la bambina si mette a piangere, piangi ch'io piango, singhiozzando, e non si poteva chetare.
Dunque picchiano alla porta: lei va a vedere e crede che sian le fate; apre e vede Memè, che era il loro cugino.
«Che hai tu, Prezzemolina, che tu piangi?» dice
- «Piangereste anche voi» - risponde la bambina - «Vedete questa stanza? Quando tornano le mie signore, da nera così dev'esser bianca e dipinta di tutti gli uccelli dell'aria, altrimenti quelle mi mangiano.» -
«Se tu mi dài un bacio» - dice allora Memè, - «te la imbianco io in un momento questa stanzaccia e, a tutti gli uccelli del cielo, ci aggiungo quelli del paradiso!» -
Ma la Prezzemolina era una bimba furba e prudente e dice, tutta sostenuta :
- «Preferisco dalle fate esser mangiata che da un uomo esser baciata!» -
Dice il Memè: - «L'hai detto tanto benino che meriti la grazia!» -
Batte la bacchettina e diviene la stanza tutta bianca e tutta uccelli, come avevan detto lquelle.
Dunque Memè va via e tornano le fate; dicono:
- «L'hai fatto, Prezzemolina?» -
«Sissignore, vengano a vedere.» -
Le fate le si guardano in viso tutte esterefatte:
- «Eh, Prezzemolina, c'è stato qui Memé, per caso?» -
Ma la furbetta risponde pronta :«Non conosco alcun Memè, nè la mia bella mamma che mi fè!» -
Dunque la mattina dopo le fate nell'orto si inquietano:
- «Come si fa?» - dicono - «Qua non ci riesce di mangiarla.»
"Aspetta me!" dice una che l'aveva tutti i capelli ricciolini color pisello -" Ora le dico una cosa e poi così ce la mangiamo...»
- «Prezzemolina! Prezzemolina!»- chiama
«Cosa comandano?» -
- «Domani mattina devi andare dalla fata Morgana e devi dire la ti dia la scatola del Bel-Giullare.»
- «Sissignore» - risponde la Prezzemolina .
Eccoti la mattina la si mette in viaggio, la ragazza. E viaggia.
Cammina, cammina, incontra una vecchia donna .
- «E dove vai» - la dice - «bella bambina?» -
«Vado dalla fata Morgana a prendere la scatola del Bel-Giullare.»
- Ma ti mangerà, sai, poverina?»
- «Meglio per me» - dice - «così la sarà finita.» -
«Tieni» - dice la vecchia- «queste due pentole di lardo. A casa del Bel Giullare tu troverai due porte che si battono insieme. Ungile tutte e tu vedrai che ti lascian passare.» -
Eccoti la bambina davanti alla casa: vede queste porte e le unge tutte da capo a piede e loro la lascian passare, gua'. ffffffff....
(continua a breve)
xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx Approfondimenti:
L'incipit della versione di Italo Calvino:
“C'era una volta marito e moglie che stavano in una bella casina. E questa casina aveva una finestra che dava sull'orto delle fate. La donna aspettava un bambino, e aveva voglia di prezzemolo. S'affaccia alla finestra e nell'orto delle fate vede tutto un prato di prezzemolo. Aspetta che le fate siano uscite, prende una scala di seta e cala nell'orto. Fatta una bella scorpacciata di prezzemolo, risale per la scala di seta e chiude la finestra. L'indomani, lo stesso. Mangia oggi, mangia domani, le fate, passeggiando nel giardino, cominciarono ad accorgersi che il prezzemolo era quasi tutto andato. "Sapete cosa facciamo?" disse una delle fate. "Fingiamo d'essere uscite tutte, e una di noi invece resterà nascosta. Così vedremo chi viene a rubare il prezzemolo." Quando la donna scese nell'orto, ecco che saltò fuori una fata. "Ah, briccona! T'ho scoperta finalmente!" "Abbiate pazienza," disse la donna "ho voglia di prezzemolo perchè aspetto un bambino..." "Ti perdoniamo," disse la fata. "Però se avrai un bambino gli metterai nome Prezzemolino, se avrai una bambina le metterai nome Prezzemolina. E appena sarà grande, bambino o bambina che sia, lo prenderemo con noi!"
(tratto da "Fiabe Italiane")
(tratto da "Fiabe Italiane")
Francesca Matteoni:" Prezzemolina e i bambini delle fate"
www.griseldaonline.it/formazione/metamorfosi/matteoni.htm
La Prezzemolina della "Novellaja fiorentina" di Vittorio Imbriani:
"C'era una volta marito e moglie. E la sua finestra, di questo marito e moglie, rimaneva sull'orto delle fate. Questa donna era incinta. Un bel giorno s'affaccia alla finestra, e vede un prato di prezzemolo, il più bello! Lei sta attenta che le fate le vadan via, prende la scala di seta e si cala e si mette a mangiare il prezzemolo a tutto spiano. Mangia, mangia, poi la risale la scala, serra la sua finestra e via! Ogni giorno faceva questa storia. Un giorno le fate passeggiavano in giardino: - «E dimmi» - dice la più bella - «non ti pare che manchi del prezzemolo?» - Dicono le altre: - «E forse poco ne manca! Sai quel che si farà? Si figurerà di andare fòri tutte; e una si rimarrà niscosta; perchè qui c'è qualcheduno che viene a mangiare.» - Le fate le figurano di andar via tutte e la donna si cala a mangiare. Quando l'è per ritornare in su, la fata gli sorte di dietro: - «Oh briccona» - dice - «ora ti ho scoperta, eh?[2]» - «Abbiate pazienza» - dice questa donna - «io sono gravida; avevo questa voglia....» - «Ebbene» - dice la fata - «Ti sia perdonato. Senti, se tu fai un bambino, tu gli hai a mettere nome Prezzemolino; se tu hai una bambina, Prezzemolina; e, come è grande, la si vol noi: è per noi, via, non è più tua.» - Figuratevi questa donna! un dirotto pianto, dicendo: - «Malandrina la mia gola, la mi è costata assai!» - Dal marito era sempre rimproverata: - «Golaccia! l'hai visto?» - La partorisce la bambina e gli mette nome Prezzemolina; e quando l'è grandettina, la la manda a scuola. Le fate, tutti i giorni che la passava, gli dicevano: - «Bambina, dì alla mamma, che la si ricordi di quella roba.» - «Mamma» - dice la Prezzemolina - «hanno detto le fate che vo' vi ricordiate di quella cosa.» - Un giorno la donna era sopraffatta; torna la bambina e gli dice: - «Vi dicono le fate che vi ricordiate quella cosa.» - Risponde: - «Sì, dì che se la piglino.» - La bambina la va a scola. Dicono le fate: - «Cosa ti disse la mamma ieri sera? - «Mi disse che la possin prendere, che la prendino quella roba.» - «Oh vieni, sei te quella roba che si deve prendere.» - Urli senza fine, questa bambina: lo credo io! Lasciamo questa bambina e torniamo alla madre, che passan ore e non la vede tornare. La si ricorda d'aver detto che la prendino quella roba: - «Oh, mi son tradita! Ora addietro non si torna.» - Dunque queste fate le dicono alla bambina: - «Sai, Prezzemolina, la vedi questa stanza nera nera?» - le ci tenevano il carbone, la brace. - «Come si torna, la deve essere tutta bianca come il latte e dipinta con tutti gli uccelli dell'aria, altrimenti noi ti si mangia.» - Come volete che la facesse questa bambina? Le vanno via e la bambina si mette a piangere, piangi ch'io piango, singhiozzando; non si poteva chetare. Dunque l'è picchiato: lei va a vedere e crede che le sian le fate; apre e vede Memè, che gli era un cugino delle fate.[3] - «Che hai tu, Prezzemolina, che tu piangi?» - «Vo' piangereste anche voi» - dice. - «Vedete questa stanza? Quando le torna, le torna le mamme, di nera così dev'esser bianca e dipinta di tutti gli uccelli dell'aria, altrimenti le mi mangiano.» - «Se tu mi dài un bacio» - dice Memè, - «te la fo nel momento questa stanza.» - Lei dice: - «Piuttosto dalle fate esser mangiata, che da un omo esser baciata.» - Dice Memè: - «Tu hai detto tanto benino! ti voglio far la grazia.» - Batte la bacchettina e divien la stanza tutta bianca, tutta uccelli, come avevan detto le mamme. Dunque Memè va via e torna le fate. Dice: - «L'hai fatto, Prezzemolina?» - «Sissignora, vengano a vedere.» - Le si guardano in viso: - «Eh, Prezzemolina, c'è stato Memè!» - «Non conosco Memè, nè la mia bella mamma che mi fè.» - Dunque la mattina: - «Come si fa?» - dicono - «non ci riesce di mangiarla.» - «Prezzemolina!» - «Cosa comandano?» - E allora gli dicono: - «Domani mattina devi andare dalla fata Morgana e devi dire la ti dia la scatola del Bel-Giullare.» - «Sissignore» - la dice. Eccoti la mattina la si mette in viaggio, la ragazza. E viaggia. Cammina, cammina, la trova una donna. - «E dove vai» - la dice - «bella bambina?» - «Vado dalla fata Morgana a prendere la scatola del Bel-Giullare.» - La ti mangerà, sai, poerina?» - «Meglio per me» - dice - «così la sarà finita.» - «Tieni» - dice la donna - «queste due pentole di lardo. Tu troverai due porte che si battono insieme. Ungile tutte, e tu vedrai che ti lascian passare.» - Eccoti la bambina la giunge a queste porte e le unge tutte da capo a piede e loro la lascian passare, gua'. Dopo che l'ha camminato un pezzo, la trova un'altra donnina. E la gli dice lo stesso: - «Dove tu vai, bambina?» - Dice: - «Vado dalla fata Morgana per la scatola del Bel-Giullare.» - «Poerina, la ti mangerà, sai?» - «Meglio per me, così la sarà finita.» - «Tieni questi due pani, tu troverai due cani che si mordono l'un con l'altro. Buttagnene uno per uno: così tu passi,» - dice. Eccoti la Prezzemolina la trova questi due cani; la gnene butta uno per uno, e loro la lascian passare. Quando l'ha fatto un altro pezzo di strada, la trova un'altra donnina. Gli dice: - «Dove vai?» - «Dalla fata Morgana per la scatola del Bel-Giullare.» - «Poerina, la ti mangerà, sai?» - «Meglio per me, così la sarà finita.» - «Tu troverai un ciabattino che si strappa la barba per cucire e i capelli. Tieni, questo è spago per cucire, questa è lesina: tutto il necessario. Dagnene e lui ti lascerà passare.» - Eccoti la bambina la trovava questo ciabattino. Quando la gli dà tutta questa roba, lui la ringrazia e la lascia passare. Fatto un altro pezzo di strada, la trova l'istessa donnina e gli dice l'istesso: - «Bada, la ti mangerà sai?» - «Meglio per me, così la sarà finita.» - «Troverai una fornaja che spazza il forno con le mani: la si brucia tutta. Tieni: questi son cenci, queste sono spazzole; tutto il necessario. Tu vedrai, la ti lascia passare. Dopo poco tu troverai una piazza: quel bel palazzo che c'è, gli è codesto la fata Morgana. Tu picchi, e la scatola del Bel-Giullare, gli è dopo che tu hai salito due scale. Lei, quando tu picchi, la ti dirà: Aspetta bambina; aspetta un poco. Te, tu sali, prendi la scatola e vien via.» - Eccoti la bambina la trova questa fornaja. Quando la gli dà tutta questa roba, lei la ringrazia e la lascia passare. La picchia, la sale, la prende la scatola e la scappa via. La fata che sente serrar l'uscio, la s'affaccia alla finestra e vede la bambina che scappa via. - «O fornaja, che spazzate il forno con le mani, tenetemela, tenetemela.» - «Se fossi minchiona! Dopo tanti anni, che fatico, la mi ha dato i cenci e la spazzola! Passa, poerina, vai, vai!» - «O ciabattino, che cucite con la barba e vi strappate i capelli, tenetemela, tenetemela!» - «O io sì, che sarò un minchione! Dopo tant'anni, ch'io fatico, la mi ha portato tutto il necessario. Vai, vai, poerina.» - «O cani che vi mordete tanto, tenetemela, tenetemela!» - «O noi sì, che saremo minchioni! La ci ha dato un pane per uno! Vai, vai, poerina!» - «O porte, che vi battete tanto, tenetemela, tenetemela!» - «Oh noi sì, che saremo minchione! La ci ha unte da capo a piedi! Vai, vai poerina.» - E la fanno passare.[4] Quando l'è libera, la dice: - «Che ci sarà egli in questa scatola?» - La trova una piazza, la si mette a sedere e apre la scatola. Esce fori persone, persone, persone, persone: gli escono da questa scatola; che cantavano, che sonavano, tutte. Figuratevi la disperazione di questa bambina. Lei le voleva rimettere in questa scatola: ne prendeva una e ne scappava dieci. La si mette a piangere, potete credere! Eccoti Memè. - «Briccona, l'hai visto quel che t'hai fatto?» - «Oh! voleva vedere...» - «Eh» - dice Memè, - «ora non c'è rimedio. Se tu mi dài un bacio, io ti rimedio.» - «Meglio dalle fate esser mangiata, che da un omo esser baciata.» - «Sai? tu l'hai detto tanto benino, che ti vo' far la grazia.» - Batte la bacchettina e ritorna tutta la scatola come prima: serrata come l'era. La Prezzemolina va là a casa e picchia. - «Oh dio!» - dice - «È la Prezzemolina. Come mai non l'ha mangiata, la fata Morgana?» - Dice: - «Felice giorno» - la dice la bambina - «Ecco la scatola.» - Dicono le mamme: - «Che t'ha ella detto la fata Morgana?» - «La me l'ha data e m'ha detto: Fagli tanti saluti.» - «Eh» - dicono le fate - «abbiamo bell'e inteso! bisognerà mangiarla noi. Stasera, come viene Memè, gli si dice che la si deve mangiare.» - Eccoti la sera vien Memè: - «Sai?» - gli dicono - «la non l'ha mangiata, la Prezzemolina; la s'ha da mangiar noi.» - «Oh bene!» - dice lui - «oh bene!» - «Domani, quando l'ha fatte le sue faccende, gli si fa mettere al foco le caldaje, quelle grandi che si fa il bucato. E quando le bollan bene, in tutte e quattro la si butta dentro a cocere.» - Lui dice: - «Bene, bene, sì, sì; riman fissato così.» - Eccoti la mattina le vanno via loro e non dicon nulla; le vanno via come eran solite. Quando le sono ite, ite via, eccoti Memè dalla Prezzemolina: - «Sai» - dice - «oggi, a un'ora, le ti ordineranno di mettere al foco le caldaje, quelle grandi del bucato. E, quando le bollan bene, le ti diranno, chiamaci; le ti dicono: diccelo. E le ti buttan te a cocere dentro. E invece noi s'ha a guardare se ci si butta loro.» - Eccoti Memè va via e dopo poco tornan le fate: - «Sai» - dice - «Prezzemolina, quando s'è pranzato oggi, che t'hai fatte tutte le faccende, metti le caldaje, quelle del bucato, che si fa il bucato; e quando le bollan bene, chiamaci.» - Quando l'ha finite tutte le sue faccende, la mette tutte queste caldaje. Le dicono: - «Fa gran foco.» - La fa foco, figuratevi, anche di più di quel che gli avevan detto. Picchia Memè: - «Oh!» - dice - «ora ora la s'ha a mangiare!» - e si fregava le mani. - «Oh» - dicono - «altro!» - Eccoti l'acqua quando la bolle, Prezzemolina la dice: - «Mamme, le venghino a vedere; l'acqua la bolle.» - Le fate le vanno a vedere lì alla caldaja se la bolle. Dice: - «Coraggio!» - alla Prezzemolina; gli dice Memè. Lui ne acchiappa due e le mette dentro; lei prende quell'altre e le butta; e bolli, bolli, bolli, finchè non fu staccato il collo non le levorno: sempre a bollire! - «Ora poi siamo padroni di tutto, la me' bambina. Vieni con me.» - La conduce giù in cantina, dove c'era una infinità di lumi e c'era quello della fata Morgana, grosso, grande; quello gli era il più grosso di tutti. La maggiore delle fate! La sua anima, gli era un lume. Spenti che gli erano, le eran morte tutte, ecco! - «Spengi di costì e io spengo di questa parte.» - Così li spensero tutti e rimasero padroni di ogni cosa.[5] Andiedero lassù nel posto della fata Morgana. Il ciabattino ne fecero un signore; la fornaja parimente; i cani li portarono nel suo palazzo; e le porte le lasciarono stare e le facevano ungere. - «Te» - dice Memè - «sarai la mia sposa; questo è giusto.» -
E si vissero e si godettero e in pace sempre stettero e a me nulla mi dettero."
E si vissero e si godettero e in pace sempre stettero e a me nulla mi dettero."
L?Archetipo: la "Petrosinella" di Giambattista Basile:
Era na vota na femmena prena chiammata Pascadozia, la quale, affacciatose a na fenestra che sboccava a no giardino de n’orca, vedde no bello quatro de petrosino, de lo quale le venne tanto golio che se senteva ascievolire; tanto che, non potenno resistere, abistato quanno scette l’orca, ne cogliette na vrancata. Ma, tornata l’orca a la casa e volenno fare la sauza, s’addonaie ca ’nc’era menata la fauce e disse:
«Me se pozza scatenare lo cuollo si nce ’mmatto sto maneco d’ancino e non ne lo faccio pentire, azzò se ’mpara ogne uno a magnare a lo tagliero suio e no scocchiariare pe le pigniate d’autre».
Ma continovanno la povera prena a rescendere all’uorto, nce fu na matina ’mmattuta da l’orca, la quale, tutta arraggiata e ’nfelata, le disse:
«Aggiotence ’ncappata, latra mariola! E che ne paghe lo pesone de sto uorto, che viene co tanta poca descrezzione a zeppoliare l’erve meie? Affé, ca non te mannarraggio a Romma pe penetenzia!».
Pascadozia negrecata commenzaie a scusarese, decenno ca no pe cannarizia o lopa c’avesse ’n cuorpo l’aveva cecato lo diascance a fare st’arrore, ma ped essere prena e dubetava che la facce de la criatura non nascesse semmenata de petrosine; anze deveva averele grazia che no l’avesse mannato quarche agliarulo.
«Parole vo’ la zita! – respose l’orca – non me nce pische co sse chiacchiare! Tu hai scomputo lo staglio de la vita si non prommiette de dareme la criatura che farrai, o mascolo o femmena che se sia».
La negra Pascadozia, pe scappare lo pericolo dove se trovava, ne joraie co na mano ’ncoppa all’autra e cossì l’orca la lassaie scapola. Ma, venuto lo tiempo de partorire, fece na figliola cossì bella, ch’era na gioia, che pe avere na bella cimma de petrosino ’m pietto la chiammaie Petrosinella; la quale, ogne iuorno crescenno no parmo, comme fu de sette anne la mannaie a la maiestra. La quale sempre che ieva pe la strata, e se scontrava coll’orca, le deceva:
«Di’ a mammata che se allecorde de la ’mprommessa!».
E tanta vote fece sto taluerno che la scura mamma, non avenno cchiù cellevriello de sentire sta museca, le disse na vota:
«Si te scuntre co la solita vecchia e te cercarrà sta mardetta prommessa e tu le respunne: Pigliatella!».
Petrosinella, che non sapeva de cola, trovanno l’orca e facennole la stessa proposta, le respose ’nnocentemente comme l’aveva ditto la mamma e l’orca, afferratala pe li capille, se ne la portaie a no vosco dove non trasevano mai li cavalle de lo Sole pe n’essere affedate a li pascole de chell’ombre, mettennola drinto a na torre che fece nascere ped arte, senza porte, né scale, sulo co no fenestriello, pe la quale pe li capille de Petrosinella, ch’erano luonghe luonghe, saglieva e scenneva, comme sole batto de nave pe le ’nsarte dell’arvolo.
Ora soccesse ch’esseno fora de chella torre l’orca, Petrosinella cacciato la capo fora de chillo pertuso e spaso le trezze a lo sole, passaie lo figlio de no prencepe, lo quale, vedenno doie bannere d’oro che chiammavano l’arme ad assentarese a lo rollo d’Ammore e miranno drinto a chelle onne preziose na facce de Serena che ’ncantava li core, se ’ncrapecciaie fora de mesura de tanta bellezze; e, mannatole no memmoriale de sospiri, fu decretato che se l’assentasse la chiazza a la grazia soia.
E la mercanzia rescì de manera che lo prencepe appe calate de capo a vasate de mano, uocchie a zennariello a leverenzie, rengraziamiente ad afferte, speranze a prommesse e bone parole a liccasalemme. La quale cosa continuata pe cchiù juorne s’addomestecaro de manera che vennero ad appontamiento de trovarese ’nsiemme. La quale cosa doveva essere la notte – quanno la Luna joqua a passara muta co le stelle – ch’essa averria dato l’addormio all’orca e ne l’averria aisato co li capille.
E cossì restate de commegna, venne l’ora appontata e lo prencepe se consignaie a la torre, dove, fatto calare a sisco le trezze de Petrosinella e afferratose a doi mano, disse: Aisa! E tirato ’ncoppa, schiaffatose pe lo fenestriello drinto la cammara, se fece no pasto de chillo petrosino de la sauza d’Ammore e – ’nante che lo Sole ’mmezzasse li cavalle suoie a sautare pe lo chirchio de lo Zodiaco – se ne calaie pe la medesema scala d’oro a fare li fatte suoie. La quale cosa continuanno spesse vote a fare, se n’addonaie na commare dell’orca, la quale, pigliannose lo ’mpaccio de lo Russo, voze mettere lo musso a la merda, e disse a l’orca che stesse ’n cellevriello, ca Petrosinella faceva l’ammore co no cierto giovane e sospettava che non fossero passate cchiù ’nnanze le cose, perché vedeva lo moschito e lo trafeco che se faceva, e dobetava che, fatto no leva eio, non fossero sfrattate ’nnante maio de chella casa.
L’orca rengraziaie la commare de lo buono avvertemiento e disse ca sarria stato penziero suio de ’mpedire la strata a Petrosinella; otra che non era possibile che fosse potuto foire ped averele fatto no ’ncanto, che si n’avea ’n mano tre gliantre nascose drinto a no travo de la cocina era opera perza che potesse sfilarennella. Ma, mentre erano a sti ragiunamiente, Petrosinella, che steva co l’aurecchie appezzute ed aveva quarche sospetto de la commare, ’ntese tutto lo trascurzo, e – comme la Notte spase li vestite nigre perché se conservassero da le carole – venuto a lo solito lo prencepe lo fece saglire ’ncoppa li trave e, trovate le gliantre, le quale sapenno comme se l’avevano da adoperare, ped essere stata fatata dall’orca, fatto na scala de fonecella se ne scesero tutte duie a bascio, e commenzaro a toccare de carcagne verzo la cetate.
Ma, essenno viste a lo scire da la commare, commenzaie a strillare chiammanno l’orca e tanto fu lo strillatorio che se scetaie e, sentenno ca Petrosinella se n’era foiuta, se ne scese pe la medesima scala ch’era legata a lo fenestriello e commenzaie a correre dereto li ’nnamorate. Li quale, comme la veddero venire cchiù de no cavallo scapolo a la vota lloro, se tennero perdute. Ma, lecordannose Petrosinella de le tre gliantre, ne iettaie subito una ’n terra ed eccote sguigliare no cane corzo cossì terribile – c’oh mamma mia! –; lo quale co tanto de canna aperta abbaianno ieze ’ncontra all’orca pe se ne fare no voccone. Ma chella, ch’era chiù maliziosa de parasacco, puostose mano a la saccocciola ne cacciaie na panella e, datola a lo cane, le fece cadere la coda e ammosciare la furia.
E, tornato a correre dereto chille che foievano, Petrosinella, vistola avvecenare, jettaie la seconna gliantra ed ecco scire no feroce lione, che, sbattenno la coda ’nterra e scotolanno li crine, co dui parme de cannarone spaparanzato s’era puosto all’ordene de fare scafaccio de l’orca. E l’orca, tornanno arreto, scortecaie n’aseno che pasceva ’mmiezo a no prato, e, puostose la pella ’ncoppa, corze de nuovo ’ncontra a chillo lione, lo quale, credennose che fosse no ciuccio, appe tanta paura ch’ancora fuie.
Pe la quale cosa, sautato sto secunno fuosso, l’orca tornaie a secotare chille povere giuvane, che, sentenno lo scarponeiare e vedenno la nuvola de la porvere che s’auzava a lo cielo, conjetturaro ca l’orca se ne veneva de nuovo. La quale, avenno sempre sospetto che no la secotasse lo lione, non se aveva levato la pelle dell’aseno ed, avenno Petrosinella jettato la terza gallozza, ne scette no lupo, lo quale, senza dare tiempo all’orca de pigliare nuovo partito, se la ’nnorcaie comm’a n’aseno. E li ’nammorate, scenno de ’mpaccio, se ne iettero chiano chiano a lo regno de lo prencepe, dove, co bona lecenzia de lo patre, se la pigliaie pe mogliere e provâro dapo’ tante tempeste de travaglie che: n’ora di buon puorto /fa scordare ciento anne de fortuna».
(da "Lo Cunto de li Cunti")
Era na vota na femmena prena chiammata Pascadozia, la quale, affacciatose a na fenestra che sboccava a no giardino de n’orca, vedde no bello quatro de petrosino, de lo quale le venne tanto golio che se senteva ascievolire; tanto che, non potenno resistere, abistato quanno scette l’orca, ne cogliette na vrancata. Ma, tornata l’orca a la casa e volenno fare la sauza, s’addonaie ca ’nc’era menata la fauce e disse:
«Me se pozza scatenare lo cuollo si nce ’mmatto sto maneco d’ancino e non ne lo faccio pentire, azzò se ’mpara ogne uno a magnare a lo tagliero suio e no scocchiariare pe le pigniate d’autre».
Ma continovanno la povera prena a rescendere all’uorto, nce fu na matina ’mmattuta da l’orca, la quale, tutta arraggiata e ’nfelata, le disse:
«Aggiotence ’ncappata, latra mariola! E che ne paghe lo pesone de sto uorto, che viene co tanta poca descrezzione a zeppoliare l’erve meie? Affé, ca non te mannarraggio a Romma pe penetenzia!».
Pascadozia negrecata commenzaie a scusarese, decenno ca no pe cannarizia o lopa c’avesse ’n cuorpo l’aveva cecato lo diascance a fare st’arrore, ma ped essere prena e dubetava che la facce de la criatura non nascesse semmenata de petrosine; anze deveva averele grazia che no l’avesse mannato quarche agliarulo.
«Parole vo’ la zita! – respose l’orca – non me nce pische co sse chiacchiare! Tu hai scomputo lo staglio de la vita si non prommiette de dareme la criatura che farrai, o mascolo o femmena che se sia».
La negra Pascadozia, pe scappare lo pericolo dove se trovava, ne joraie co na mano ’ncoppa all’autra e cossì l’orca la lassaie scapola. Ma, venuto lo tiempo de partorire, fece na figliola cossì bella, ch’era na gioia, che pe avere na bella cimma de petrosino ’m pietto la chiammaie Petrosinella; la quale, ogne iuorno crescenno no parmo, comme fu de sette anne la mannaie a la maiestra. La quale sempre che ieva pe la strata, e se scontrava coll’orca, le deceva:
«Di’ a mammata che se allecorde de la ’mprommessa!».
E tanta vote fece sto taluerno che la scura mamma, non avenno cchiù cellevriello de sentire sta museca, le disse na vota:
«Si te scuntre co la solita vecchia e te cercarrà sta mardetta prommessa e tu le respunne: Pigliatella!».
Petrosinella, che non sapeva de cola, trovanno l’orca e facennole la stessa proposta, le respose ’nnocentemente comme l’aveva ditto la mamma e l’orca, afferratala pe li capille, se ne la portaie a no vosco dove non trasevano mai li cavalle de lo Sole pe n’essere affedate a li pascole de chell’ombre, mettennola drinto a na torre che fece nascere ped arte, senza porte, né scale, sulo co no fenestriello, pe la quale pe li capille de Petrosinella, ch’erano luonghe luonghe, saglieva e scenneva, comme sole batto de nave pe le ’nsarte dell’arvolo.
Ora soccesse ch’esseno fora de chella torre l’orca, Petrosinella cacciato la capo fora de chillo pertuso e spaso le trezze a lo sole, passaie lo figlio de no prencepe, lo quale, vedenno doie bannere d’oro che chiammavano l’arme ad assentarese a lo rollo d’Ammore e miranno drinto a chelle onne preziose na facce de Serena che ’ncantava li core, se ’ncrapecciaie fora de mesura de tanta bellezze; e, mannatole no memmoriale de sospiri, fu decretato che se l’assentasse la chiazza a la grazia soia.
E la mercanzia rescì de manera che lo prencepe appe calate de capo a vasate de mano, uocchie a zennariello a leverenzie, rengraziamiente ad afferte, speranze a prommesse e bone parole a liccasalemme. La quale cosa continuata pe cchiù juorne s’addomestecaro de manera che vennero ad appontamiento de trovarese ’nsiemme. La quale cosa doveva essere la notte – quanno la Luna joqua a passara muta co le stelle – ch’essa averria dato l’addormio all’orca e ne l’averria aisato co li capille.
E cossì restate de commegna, venne l’ora appontata e lo prencepe se consignaie a la torre, dove, fatto calare a sisco le trezze de Petrosinella e afferratose a doi mano, disse: Aisa! E tirato ’ncoppa, schiaffatose pe lo fenestriello drinto la cammara, se fece no pasto de chillo petrosino de la sauza d’Ammore e – ’nante che lo Sole ’mmezzasse li cavalle suoie a sautare pe lo chirchio de lo Zodiaco – se ne calaie pe la medesema scala d’oro a fare li fatte suoie. La quale cosa continuanno spesse vote a fare, se n’addonaie na commare dell’orca, la quale, pigliannose lo ’mpaccio de lo Russo, voze mettere lo musso a la merda, e disse a l’orca che stesse ’n cellevriello, ca Petrosinella faceva l’ammore co no cierto giovane e sospettava che non fossero passate cchiù ’nnanze le cose, perché vedeva lo moschito e lo trafeco che se faceva, e dobetava che, fatto no leva eio, non fossero sfrattate ’nnante maio de chella casa.
L’orca rengraziaie la commare de lo buono avvertemiento e disse ca sarria stato penziero suio de ’mpedire la strata a Petrosinella; otra che non era possibile che fosse potuto foire ped averele fatto no ’ncanto, che si n’avea ’n mano tre gliantre nascose drinto a no travo de la cocina era opera perza che potesse sfilarennella. Ma, mentre erano a sti ragiunamiente, Petrosinella, che steva co l’aurecchie appezzute ed aveva quarche sospetto de la commare, ’ntese tutto lo trascurzo, e – comme la Notte spase li vestite nigre perché se conservassero da le carole – venuto a lo solito lo prencepe lo fece saglire ’ncoppa li trave e, trovate le gliantre, le quale sapenno comme se l’avevano da adoperare, ped essere stata fatata dall’orca, fatto na scala de fonecella se ne scesero tutte duie a bascio, e commenzaro a toccare de carcagne verzo la cetate.
Ma, essenno viste a lo scire da la commare, commenzaie a strillare chiammanno l’orca e tanto fu lo strillatorio che se scetaie e, sentenno ca Petrosinella se n’era foiuta, se ne scese pe la medesima scala ch’era legata a lo fenestriello e commenzaie a correre dereto li ’nnamorate. Li quale, comme la veddero venire cchiù de no cavallo scapolo a la vota lloro, se tennero perdute. Ma, lecordannose Petrosinella de le tre gliantre, ne iettaie subito una ’n terra ed eccote sguigliare no cane corzo cossì terribile – c’oh mamma mia! –; lo quale co tanto de canna aperta abbaianno ieze ’ncontra all’orca pe se ne fare no voccone. Ma chella, ch’era chiù maliziosa de parasacco, puostose mano a la saccocciola ne cacciaie na panella e, datola a lo cane, le fece cadere la coda e ammosciare la furia.
E, tornato a correre dereto chille che foievano, Petrosinella, vistola avvecenare, jettaie la seconna gliantra ed ecco scire no feroce lione, che, sbattenno la coda ’nterra e scotolanno li crine, co dui parme de cannarone spaparanzato s’era puosto all’ordene de fare scafaccio de l’orca. E l’orca, tornanno arreto, scortecaie n’aseno che pasceva ’mmiezo a no prato, e, puostose la pella ’ncoppa, corze de nuovo ’ncontra a chillo lione, lo quale, credennose che fosse no ciuccio, appe tanta paura ch’ancora fuie.
Pe la quale cosa, sautato sto secunno fuosso, l’orca tornaie a secotare chille povere giuvane, che, sentenno lo scarponeiare e vedenno la nuvola de la porvere che s’auzava a lo cielo, conjetturaro ca l’orca se ne veneva de nuovo. La quale, avenno sempre sospetto che no la secotasse lo lione, non se aveva levato la pelle dell’aseno ed, avenno Petrosinella jettato la terza gallozza, ne scette no lupo, lo quale, senza dare tiempo all’orca de pigliare nuovo partito, se la ’nnorcaie comm’a n’aseno. E li ’nammorate, scenno de ’mpaccio, se ne iettero chiano chiano a lo regno de lo prencepe, dove, co bona lecenzia de lo patre, se la pigliaie pe mogliere e provâro dapo’ tante tempeste de travaglie che: n’ora di buon puorto /fa scordare ciento anne de fortuna».
(da "Lo Cunto de li Cunti")
www.angelodimauro.it:
"Le Teresinelle nel parco" (Petrosinella/Prezzemolina, Cenerentola & tutte le altre attraverso le narrazioni dei contadini di Somma Vesuviano)
Una "Prezzemolina" sulla scana:
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