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"Il fantastico è il linguaggio dell’io interiore.Non pretenderò altro per la narrativa fantastica che dire che la ritengo il linguaggio adatto a raccontare storie ai bambini ed a altri. Ma lo affermo con sicurezza perché ho dietro di me l’autorità di un grandissimo poeta, che lo ha detto in modo molto più audace: “Il grande strumento del bene morale – ha detto Shelley – è la fantasia.”
Sappiate dunque che c'era una volta un principe vedovo, che aveva una figliola così cara che non ci vedeva per altri occhi; per lei teneva una maestra di prim'ordine, che le insegnava le catenelle, il punto Venezia, le frange e il punto a giorno, mostrandole tanto affetto che non bastano le parole a dirlo. Ma, essendosi sposato da poco il padre e pigliata una focosa malvagia e indiavolata, questa maledetta femmina cominciò ad avere in disgusto la figliastra, facendole cere brusche, facce storte, occhiate accigliate da spaventarla, tanto che la povera ragazza si lamentava sempre con la maestra dei maltrattamenti che le faceva la matrigna, dicendole: "Oh Dio, e non potessi essere tu la mammarella mia,che mi fai tanti vezzi e carezze?"
E tanto continuò a ripetere questa cantilena che, messole un vespone nell'orecchio, accecata dal diavolo, una volta la maestra le disse:
"Se farai come ti dice questa testa pazza, io ti sarò mamma e tu mi sarai cara come le ciliegine di questi occhi".
Voleva continuare a parlare, quando Zezolla (che così si chiamava la ragazza) disse:
"Perdonami, se ti spezzo la parola in bocca. Io so che mi vuoi bene, perciò zitto e sufficit: insegnami l'arte, perché io vengo dalla campagna, tu scrivi io firmo" "
Orsù" replicò la maestra, "senti bene, apri le orecchie e il pane ti verrà bianco come i fiori. Appena tuo padre esce, dì alla tua matrigna che vuoi un vestito di quelli vecchi che stanno dentro la grande cassapanca nel ripostiglio, per risparmiare questo che porti addosso. Lei, che ti vuol vedere tutta pezze e stracci, aprirà il cassone e dirà: 'Tieni il coperchio' E tu, tenendolo, mentre andrà rovistando dentro, lascialo cadere di colpo, così si romperà l'osso del collo.
Sentito questo, a Zezolla ogni ora parve mille anni e, messo in opera per filo e per segno il consiglio della maestra, dopo che passò il tempo del lutto per la disgrazia della matrigna, cominciò a toccare i tasti del padre, perché si sposasse con la maestra. Da principio il principe la prese in burla; ma la figlia tanto tirò di piatto finché colpì di punta, perché alla fine il padre si piegò alle parole de Zezolla e, pigliatosi in moglie Carmosina, che era la maestra, fece una grande festa.
Ora, mentre gli sposi stavano in tresca tra loro, affacciatasi Zezolla a un terrazzino di casa sua, una colombella, volata sopra un muro, le disse:"Quando ti viene voglia di qualcosa, mandala a chiedere alla colomba delle fate nell'isola di Sardegna, ché l'avrai subito".
La nuova matrigna per cinque o sei giorni soffocò di carezze Zezolla, facendola sedere al miglior posto a tavola, dandole il miglior boccone, mettendole i migliori vestiti. Ma, passato a mala pena un poco di tempo, mandato a monte e scordato completamente il favore ricevuto, (oh, triste l'anima che ha cattiva padrona!) cominciò a mettere in bella mostra sei figlie sue, che fino ad allora aveva tenuto segrete e, tanto fece con il marito che, prese in grazia le figliastre, gli cadde dal cuore la figlia propria, tanto che, pèrdici oggi manca domani, successe che si ridusse dalla camera alla cucina e dal baldacchino al focolare, dai lussi di seta e d'oro agli stracci, dagli scettri agli spiedi, né solo cambiò stato, ma perfino il nome, e da Zezolla fu chiamata Gatta Cenerentola.
Avvenne che il principe, dovendo andare in Sardegna per faccende necessarie al suo stato, domandò a una per una a Imperia, Calamita, Fiorella, Diamante, Colombina ,Pascarella, che erano le sei figliastre, che cosa volessero che gli portasse al suo ritorno: e chi chiese vestiti da sfoggiare, chi galanterie per la testa, chi belletti per la faccia, chi giocarelli per passare il tempo e chi una cosa e chi un'altra. Per ultimo, quasi per burla, disse alla figlia: "E tu, che vorresti?"
E lei: "Niente altro, se non che mi raccomandi alla colomba delle fate, chiedendo che mi mandino qualcosa; e, se te lo scordi, possa tu non andare né avanti né indietro. Tieni a mente quello che ti dico: arma tua, mano tua".
Partì il principe, fece gli affari suoi in Sardegna, comprò quanto gli avevano chiesto le figliastre e Zezolla gli uscì di mente
Ma, imbarcatosi sopra a un vascello e facendo vela, la nave non riuscì a staccarsi dal porto, e pareva che fosse frenata dalla remora. Il padrone del vascello, ch'era quasi disperato, per la stanchezza, si mise a dormire e vide in sogno una fata, che gli disse:
"Sai perché non potete staccare la nave dal porto? Perché il principe che viene con voi ha mancato la promessa alla figlia, ricordandosi di tutte tranne che del sangue suo". Si sveglia il padrone, racconta il sogno al principe, il quale, confuso per la sua mancanza, andò alla grotta delle fate, e, raccomandando loro la figlia, chiese che le mandassero qualcosa. Ed ecco venir fuori della grotta una bella giovane, che sembrava un gonfalone, la quale gli disse che ringraziava la figlia per la buona memoria e che se la godesse per amor suo.
Così dicendo gli diede un dattero, una zappa, un secchiello d'oro e una tovaglia di seta, dicendo che l'uno era per seminare e le altre cose per coltivare la pianta. Il principe, meravigliato di questi doni, si congedò dalla fata e si avviò alla volta del suo paese e, dato a tutte le figliastre quanto avevano chiesto, finalmente consegnò alla figlia il dono che le faceva la fata. La quale, con una gioia che non la teneva nella pelle, piantò il dattero in un bel vaso di coccio; lo zappava, lo innaffiava e con la tovaglia di seta l'asciugava mattino e sera, tanto che in quattro giorni, cresciuto dell'altezza di una donna, ne uscì fuori una fata, dicendole: "Che desideri?"
Zezolla le rispose che qualche volta desiderava di uscire di casa, ma non voleva che le sorelle lo sapessero.
Replicò la fata: "Ogni volta che ti fa piacere, vieni vicino al vaso di coccio e dì: «Dattero mio dorato, con la zappetta d'oro t'ho zappato, con il secchiello d'oro t'ho innaffiato, con la tovaglia di seta t'ho asciugato: spoglia a te e vesti a me!» E quando vorrai spogliarti, cambia l'ultimo verso, dicendo: «Spoglia a me e vesti a te!»
Ora, essendo venuto un giorno di festa ed essendo uscite le figlie della maestra tutte spampanate agghindate impellicciate, tutte nastrini campanellini e collanelle, tutte fiori odori cose e rose, Zezolla corre subito al vaso di coccio e, dette le parole insegnatele dalla fata, fu agghindata come una regina e, posta su una cavalcatura con dodici paggi lindi e pinti, andò dove andavano le sorelle, che fecero la bava alla bocca per le bellezze di questa splendida colomba.
Ma, come volle la sorte, capitò nello stesso luogo il re, il quale, visto la straordinaria bellezza di Zezolla, ne restò subito affatturato e disse al servitore più fedele d'informarsi su come poter sapere di questa bellezza, e chi fosse e dove stava.
Il servitore le si mise dietro con la stessa andatura: ma lei, accortasi dell'agguato, gettò una manciata di scudi d'oro, che si era fatta dare dal dattero a questo scopo. Quello, avvistati gli scudi, si dimenticò d'inseguire il cavallo per riempirsi le zampe di quattrini, e lei s'infilò di slancio in casa, dove, spogliatasi come le aveva insegnato la fata, aspettò quelle bruttone delle sorelle, che, per farle dispetto, raccontarono delle tante cose belle che avevano visto.
Nel mentre, il servitore tornò dal re e raccontò il fatto degli scudi; e quello, invaso da una rabbia grande, gli disse che per quattro quattrini cacati aveva venduto il piacer suo e che a qualsiasi costo, alla prossima festa, avrebbe dovuto cercare di sapere chi fosse la bella giovane e dove si nascondesse questo bell'uccello.
Arrivò l'altra festa e, uscite le sorelle tutte apparate ed eleganti, lasciarono la disprezzata Zezolla vicino al focolare; e lei subito corre dal dattero e, pronunciate le solite parole, ecco che uscirono un gruppo di damigelle. Chi con lo specchio, chi con la carafella d'acqua di zucca, chi con il ferro dei riccioli, chi con il panno del rosso, chi con il pettine, chi con le spille, chi con i vestiti, chi con il diadema e le collane e, fattala bella come un sole, la misero su una carrozza a sei cavalli, accompagnata da staffiere e da paggi in livrea e, arrivata nello stesso luogo dove c'era stata l'altra festa, aggiunse meraviglia al cuore delle sorelle e fuoco al petto del re.
Ma, andatosene di nuovo e andatole dietro il servo, per non farsi raggiungere gettò una pugno di perle e gioielli e, mentre quell'uomo dabbene si fermò a beccarsele, che non era cosa da perdere, essa ebbe il tempo di arrivare a casa e di spogliarsi come al solito.
Il servitore tornò mogio mogio dal re, il quale disse: "Per l'anima dei morti miei, se tu non la trovi, ti assesto una bastonatura e ti darò tanti calci in culo per quanti peli hai nella barba".
Arrivò l'altra festa e, uscite le sorelle, lei tornò dal dattero e, continuando la canzone fatata, fu vestita superbamente e posta dentro a una carrozza d'oro, con tanti servi che le correvano attorno. E, andata a far invidia alle sorelle, se ne partì, e il servo del re si cucì a filo doppio alla carrozza.
Essa, vedendo che le era sempre alle costole, disse: "Sferza, cocchiere!",
Ed ecco la carrozza si mise a correre con tanta furia e fu così precipitosa la corsa che le cascò una pianella; e non si poteva vedere più bella cosa.
Il servitore, che non riuscì a raggiungere la carrozza che volava, raccolse la pianella da terra e la portò al re, raccontandogli quanto gli era successo.
E lui, presala in mano, disse: "Se le fondamenta sono così belle, cosa sarà la casa? O bel candeliere, dove è stata la candela che mi strugge! O treppiede della bella caldaia, dove bolle la mia vita! O bei sugheri attaccati alla lenza d'Ammore, con cui ha pescato quest'anima! Ecco, io vi abbraccio e vi stringo e, se non posso arrivare alla pianta, adoro le radici e, se non posso avere i capitelli, bacio i basamenti! Già siete stati cippi di un bianco piede, ora siete tagliole di un cuore nero. Per voi era alta un palmo e mezzo di più colei che tiranneggia questa vita e per voi cresce altrettanto di dolcezza questa vita, mentre vi guardo e vi posseggo"
Così dicendo chiama lo scrivano, comanda il trombettiere e tu... tu... tu... fa lanciare un bando: che tutte le femmine della città vengano a una festa pubblica e a un banchetto, che si è messo in testa di fare.
E, venuto il giorno stabilito, oh bene mio: che masticatorio e che cuccagna che si fece! Da dove vennero tante pastiere e casatielli? Da dove li stufati e le polpette? Da dove i maccheroni e i ravioli? Tanta roba che ci poteva mangiare un esercito intero.
Arrivarono tutte le femmine, e nobili e ignobili e ricche e pezzenti e vecchie e giovani e belle e brutte e, dopo aver ben pettinato, il re, fatto il prosit, provò la pianella a una per una a tutte le convitate, per vedere a chi andasse a capello e a pennello, tanto che potesse conoscere dalla forma della pianella quella che andava cercando.
Ma, non trovando piede che ci andasse a sesto, stava a disperarsi. Tuttavia, dopo aver zittito tutti, disse: "Tornate domani a fare un'altra volta penitenza con me. Ma, se mi volete bene, non lasciate nessuna femmina in casa, sia chi sia"
Disse il principe: "Ho una figlia, ma fa sempre la guarda al focolare, perché è disgraziata e da poco e non merita di sedere dove mangiate voi"
Disse il re: "Questa sia in testa alla lista, perché così mi piace"
Così partirono e il giorno dopo tornarono tutte e, insieme con le figlie di Carmosina, venne Zezolla, e il re, non appena la vide, ebbe come l'avvertimento che fosse quella che desiderava, tuttavia abbozzò. Ma, finito di sbattere i denti, si arrivò alla prova della pianella, che non s'era neppure accostata al piede de Zezolla, che si lanciò da sola al piede di quel coccopinto d'Amore, come il ferro corre alla calamita.
Vista la qual cosa il re, corse a stringerla forte tra le braccia e, fattala sedere sotto il baldacchino, le mise la corona in testa, comandando a tutte che le facessero inchini e riverenze, come alla loro regina.
Le sorelle vedendo ciò, piene di rabbia, non avendo lo stomaco di sopportare lo scoppio del loro core, se la filarono quatte quatte verso la casa della mamma, confessando a loro dispetto che è pazzo chi contrasta con le stelle.
Fine
APPROFONDIMENTI:
1
"Attraversare i confini: corpo e potere materno nella fiaba" di Francesca Matteoni
2 "LA GATTA CENERENTOLA" & il teatro “La gatta Cenerentola”, il capolavoro di De Simone, debuttò al Festival di Spoleto nel 1976. Colta, popolare, ironica, con le tamurriate e le tarantelle, le scenografie barocche e visionarie ispirate al Palazzo dello Spagnolo di Napoli, gli uomini sotto gli abiti della Matrigna e delle Sorellastre, il coro delle lavandaie che si trasforma in un rito di possessione e il ballo che dura tre notti.
"Così è intitolata la sesta favola (giornata prima) del Pentamerone di Giovan Battista Basile. Si tratta della favola di Cenerentola nella sua prima versione napoletana scritta, alla quale attinsero poi Perrault e gli altri favolisti successivi a Basile.
Si può perciò pensare che l'origine di questa favola sia senz'altro napoletana o meglio ancora meridionale se il primo a pubblicarla nel 1600 fu Basile il quale la trascrisse dalla tradizione popolare. E del resto, ancora nella cultura orale di Napoli e provincia, tale favola è una delle più diffuse in varie varianti. Pur tuttavia l'argomento della favola è talmente diffuso anche in altre parti d'Europa da non potere più scientificamente provare se la diffusione sia avvenuta in seguito alle traduzioni attinte dal Basile oppure se un mito legato alla simbologia della scarpa e della ragazza vergine era comune già precedentemente, ad altre culture popolari. Senza però entrare nel merito del problema, c'è da dire innanzitutto che nelle varianti raccolte in Campania, i contenuti e i segni proposti sono ben lontani dalla oleografica versione diffusa dalla favolistica borghese ottocentesca. Nella versione trascritta da Basile, ad esempio, l'argomento è introdotto da una presentazione quanto mai drammatica: basti pensare come il personaggio di Cenerentola ammazzi la sua prima matrigna per fare sposare il padre con una sua comare, la quale si trasformerà poi in una matrigna più spietata della precedente. Lo stesso assassinio è tinto dei particolari più crudeli: Cenerentola infatti lo compie troncando la testa della matrigna col coperchio di un cassettone da biancheria. In un'altra versione raccolta da me a Calitri (Irpinia) il padre di Cenerentola, rimasto vedovo, intenderebbe sposare la stessa figlia, la quale sfugge all'incesto prolungando con uno stratagemma, il tempo che si frappone alle nozze. Ella così propone al padre di accettare, a patto che egli le faccia confezionare tre abiti intessuti con il sole, la luna e tutte le stelle del cielo. Successivamente scappa con i tre vestiti e consigliata da una fata, indossa ogni giorno uno dei tre abiti. L'incontro con un principe, il ballo, la perdita della scarpa e di un anello e il ritrovamento finale seguono sulla falsariga della solita struttura. In un'altra versione raccolta sempre da me a Briano (prov. di Caserta) il ballo e le tre notti sono sostituiti da altri elementi più ritualizzati. Infatti Cenerentola indossa i tre meravigliosi abiti per recarsi alla messa della domenica, dove si erano recate la matrigna e le sei sorelle. L'ultima domenica perde la scarpa che è ritrovata poi da un re a cavallo e la favola prosegue sugli stessi schemi (la prova della scarpa e il ritrovamento finale). Infine, la stessa leggenda è addirittura presente nel culto della Madonna di Piedigrotta a Napoli. Infatti, secondo una tradizione tuttora viva tra i pescatori di Mergellina, sarebbe stata proprio la Madonna a perdere una pianella sulla spiaggia napoletana; pianella che, ritrovata da un pescatore, avrebbe condotto alla scoperta di una statua della Vergine nella grotta di Posillipo. Da tale ritrovamento, poi, sarebbe sorto il culto della Madonna locale, onorata dalle donne napoletane mediante un talismano in forma di scarpetta ('o scarpunciello d'a Maronna). Numerosi, come si può notare, i fattori mitici in Campania in relazione con la favola di Cenerentola, sebbene molto lontani da quelli comunemente noti. La favola popolare infatti, include componenti misteriche legate al mondo dei morti (la cenere, la scopa, il focolare, il vestirsi di fiori e lo spogliarsi a mezzanotte, ecc.); nasconde l'edipo femminile legato al desiderio di incesto paterno (vedi la versione di Calitri e l'elemento del ballo con personaggio del principe e del re); infine si relaziona con antichi miti solari legati al parto (lo stesso re e il principe sono una simbologia solare e la perdita della scarpa nasconde un'idea sessuale collegata all'atto della fecondazione e del parto). A Napoli, città di culto solare per eccellenza, mi sembra logico che una tale favola abbia avuto una simile vitalità e che le diverse versioni raccolte ne accentuino tuttora i carattere autenticamente popolari. Entrando ora nel merito dei vari significati c'è da dire innanzitutto che essi sono leggibili a vari livelli come in tutte le tradizioni del popolo. Il primo senso è da mettere in relazione con un antico mito locale di Proserpina-Kore che va e viene dal mondo sotterraneo. Essa è obbligata a ritornare ogni volta proprio perché lascia segno della sua presenza (la scarpetta della fecondità). Si ricorderà ancora come, in merito allo steso mito, la madre cenere addolorata per la discesa all'Ade della figlia avesse obbligato il sole a non sorgere più e a ritirarsi nel regno dei morti finché il padre Giove non avesse fatto ritornare ogni primavera la figlia Proserpina. Con tale favola poi, nella cultura napoletana si può leggere tutta la più tradizionale struttura matriarcale che è tuttora viva anche se a diversi livelli. Cenerentola è l'iniziata (è sporca di cenere), la matrigna copre il ruolo di madre cattiva che le contrasta l'antico rapporto col padre e il futuro potere di madre. Le sorellastre in fondo, sono proiezioni della stessa matrigna che ostacola l'incontro della figlia odiata con il futuro sposo (che poi è anche il padre e il figlio). Ci sembra però anche logico che la matrigna sia dipinta cattiva perché così è vista dalla ragazza la quale è mossa da un antico sentimento di odio e di rivalità verso la madre che le ruba l'affetto del padre. In tal senso la versione del Basile, che racconta l'episodio dell'assassinio della matrigna, è perfettamente coerente con il tessuto della stessa favola. Il particolare modo con cui Cenerentola le tronca la "testa" attribuisce componenti virili alla stessa matrigna che assume la classica figura di madre fallica. Per altri motivi poi, Cenerentola è la tipica figura femminile espressione di una società patriarcale. Come tale essa è la prima figura che ha l'edipo paterno in quanto ha un padre (anche perciò è sporca di cenere). Essa è la "vergine": la negativa vittoria del patriarcato sul matriarcato. Come vergine deve essere tale prima e dopo il parto: infatti perde la "scarpa" ma le si richiede la prova di controllo al "piede". Riconosciuta per la "piccolezza del piede" essa diventa il modello di sposa-madre che ha una funzione sociale solo mediante la conservazione della sua verginità: così la vuole il marito, così addirittura lo stesso figlio. La matrigna invece è l'antica matriarca sulla quale si sovrappongono gli aspetti negativi del patriarcato. Come madre fallica diventa la rivendicatrice del potere matriarcale nella società patriarcale. Per capire perfettamente questo personaggio in tutto il suo arco storico, la versione della favola raccontata a Villa di Briano (Caserta), è quanto mai significativa. Qui infatti, la matrigna non è affatto cattiva, è una tipica "madre" che accoglie Cenerentola in fasce abbandonata dal padre. Essa vive sola con le numerose figlie senza la presenza di nessun marito e quindi in un tipo di società ancora contadina, non sopraffatta dalla figura maschile. Ma sembra abbastanza superfluo sottolineare ancora che questa versione sia stata raccolta nelle campagne di Caserta. Nella versione di Basile invece, la matrigna è cattiva in quanto già inserita in una società patriarcale quale era quella urbana della città di Napoli nel 1600. Per altri aspetti poi, la favola di Cenerentola espone una antica frustrazione popolare motivata dal desiderio negato di indossare abiti favolosamente ricchi e potere placare le proprie ansie sessuali nelle tre notti magiche fino a perdere la nozione del tempo e così perdere la scarpa. E l'ultima considerazione si riallaccia al fenomeno del "tarantismo" e della possessione che con gli stessi modelli viene espresso nella cultura popolare meridionale. Si osservi infatti, come è tipico dei "tarantati" il desiderio di indossare sete, broccati e velluti e come il ballo magico nel perimetro rituale della cappella di San Paolo a Galatina, svolga la stessa funzione catartica così come nella favola napoletana di Cenerentola. Gli stessi elementi del ballo con il re (oppure con San Paolo per i tarantati), sono articolati secondo il modulo classico delle tarantelle più tradizionali: l'incontro, il corteggiamento, infine la fuga e il gesto di correre. Si noti inoltre come in tutte le tarantelle, le donne abbandonino sempre le scarpe per ballare a piedi nudi. A tale punto vorrei anche chiarire il concetto di "gatta", attributo che in Basile viene dato alla Cenerentola. Evidentemente la stessa favola deriva da una delle tante storie animalesche di trasformazione; nella Cenerentola in particolare, doveva essere una gatta che magicamente diventava una donna. Infatti, in un'altra versione ancora, raccolta da me a Copodimonte (Napoli), la Cenerentola è una gallina figlia magica di una lavandaia. Questa gallina per tre notti si spoglia delle penne per trasformarsi in una bellissima donna e così recarsi al solito ballo con un principe. Nell'ultima notte però si attarda, il principe brucia le piume che ella aveva lasciato e Cenerentola resta definitivamente donna. Da queste varianti insomma, risulta anche chiaro che sia il gatto come la gallina siano attributi della Cenerentola e che tali animali siano equivalenti di figure materne derivanti da culti totemici locali. E' anche abbastanza indicativo il fatto che gli stessi animali siano anche attributi della Madonna in Campania (Madonna della gallina a Pagani, Madonna della gatta nel Casertano e nel Cilento). Il gatto in particolare è un animale che "graffia", che sta vicino al fuoco, è spesso associato alla magia e al diavolo ed infine mangia i topi (e che il topo sia un simbolo fallico è stato ampiamente chiarito da studiosi come Jung, Geza Roheim, ecc.). Inoltre questo animale è tipicamente "casalingo" oltre che essere nemico acerrimo del "cane" (ed è anche ovvio sottolineare come il cane sia una chiara rappresentazione del padre come maschio negativo). Infine c'è da sottolineare l'aspetto socio-politico della favola, aspetto che dalle precedenti analisi ci sembra abbastanza chiaro. Cenerentola è la "serva" che diventa regina non tanto come semplice aspirazione singola a sposare il re. Essa è il popolo stesso che in lei si identifica come rappresentante legittimo del potere. Inutile dire che al re non si dà alcuna importanza: è un personaggio quasi inesistente sia nella versione di Basile come nella favola contadina di Briano. E' insomma nel personaggio femminile di una certa classe che il popolo qui si riconosce come un antico desiderio di avere un capo che non sia la negativa figura del potere maschile. Non potrebbe infatti, nel tradizionale tessuto onirico, riconoscersi in una figura di padre che storicamente è stata sempre l'espressione della guerra, della violenza, e della repressione, di cui tutti i popoli hanno sempre dovuto subire l'amara esperienza. Si ricorderà ancora a tale proposito lo straordinario favore goduto a Napoli dalla regina Giovanna, e dalla sfortunata Isabella d'Angiò, delle quali ancora i vivi canti della tradizione esaltano il mitico ricordo. E che una tale componente sia ancora viva nella psicologia popolare lo si può desumere dalla stesso secolare culto meridionale alla Madonna, proprio in un tipo di religione che invece impone la figura patriarcale di una divinità maschile. Nella favola di Cenerentola insomma, è la stessa storia di tutta la gente, le sue frustrazioni, le sue aspirazioni, il suo desiderio di trasformazione, la sua religione naturale repressa dal potere ufficiale, gli aspetti di un matriarcato che ha subito la violenza del patriarcato e la conseguente negatività dello stesso matriarcato dopo tale scontro.
La trasposizione teatrale L'azione e il testo teatrale sono stati elaborati su tutti gli elementi favolistici della tradizione scritta e di quella orale. Nello stesso tessuto della favola di Cenerentola sono inclusi numerosi elementi di altre favole e miti napoletani. Lo scopo è di evidenziare quel tessuto onirico fantastico presente nella cultura popolare meridionale, il quale è il presupposto ad un rapporto con la realtà totalmente diversa da quella comune e che conduce alla espressività sia musicale sia gestuale delle manifestazioni ritualizzate. Solo in tal senso si può riscattare una "napoletanità" apparentemente folkloristica deteriore, evidenziando componenti e tematiche "interne" che essendo umane, assumono significati universali. A tal proposito i linguaggi adoperati sono diversi, pur essendo sempre attinti dalla stessa espressività napoletana: 1) Un dialetto quotidiano realistico usato normalmente in città (sia pure oggi contaminato a diversi livelli). Con tale linguaggio si svolgono dialoghi atti a mettere in risalto una realtà quotidiana di oggi come di trecento anni fa. 2) Un linguaggio ritmato in moduli più teatrali e vicino alle forme melodrammatiche (usate nelle canzoni e nelle scene più "teatralizzate"). 3) Un altro linguaggio tipico della tradizione viva e più pura, con il quale si sottolinea la ritualizzazione e la mitizzazione della realtà quotidiana. Con questo linguaggio sono state composte le azioni cantate e mimate, ispirandosi alla viva tradizione contadina. Si è cercato perciò di tenere presente nella forma della trasposizione, un "barocco" che è tipico della vera tradizione napoletana. E per "barocco" deve qui intendersi una sovrapposizione fantastica di elementi più che un riferimento ad un preciso "stile storico" sia pure legato a Gian Battista Basile. Le azioni cantate sono accompagnate da una orchestra di nove elementi situati nel classico golfo mistico. Con ciò ci si riferisce anche ad un teatro melodrammatico così come era agli inizi del settecento a Napoli. Recupero inteso non nel senso archeologico ma in senso moderno se ancora simili strutture teatrali sono largamente usate dal popolo in Campania (vedi l'azione carnevalesca di "Zeza", il teatro della sceneggia, la natalizia "cantata dei pastori e infine la forma teatrale di Raffaele Viviani). La timbrica orchestrale si avvale di un clavicembalo, di un organo, di un violino, flauto, fagotto, basso, due trombe e timpani. In questo senso le sonorità spaziano dal tessuto popolareggiante cinquecentesco (villanelle, moresche) da quelle dell'opera buffa napoletana fino alle sonorità bandistiche delle "Zeze" e alle trombe della sceneggiata. Non si fa nessun riferimento però, ad un aspetto "folkloristico" di nessun genere. Qui è tutto inventato rimanendo rigorosamente integre le forme espressive e i linguaggi sia musicali che verbali. La scenografia e i costumi La scena è ispirata ad elementi architettonici de nostro "barocco": i palazzi oggi in rovina, dalle forme splendide e oggi adibite ad abitazioni popolari sia pure pericolanti. Sembra quasi che in questi luoghi, ad una antica aristocrazia, sia potuto seguire solo la classe popolare che oggi ancora detiene una vera cultura. In questi meravigliosi cortili del Sanfelice, del Fuga, del Vanvitelli possono perciò osservarsi lenzuola stese al sole e riunioni serali in cui si gioca a tombola raccontando pubblicamente i fatti di tutto il quartiere. E in ciò il cortile conserva ancora una sua antica funzione di luogo comune e di incontro, oggi sparito e ignorato dalle fredde e "funzionali" architetture urbane. La proposta di tali luoghi, è sembrata la più adatta ad incorniciare una azione favolistica, sia perché legata alla realtà popolare di oggi come di trecento anni fa. È infatti ancora in questi luoghi, che si conservano oggi le matrici culturali di un popolo, e sono questi cortili ad alimentare la viva fantasia napoletana, non ancora distrutta dal condizionamento consumistico e televisivo. Uguale riferimento si fa con il costume. Rifiutando il folklorismo colorato abusato in tutti i sensi, ci si è volti a rilevare la funzionalità, psicologica e tradizionale dell'abbigliamento. I riferimenti stilistici sono volti alla Napoli di Basile come tempo favolistico, e alla Napoli quotidiana di oggi e di ieri, urbana e contadina. L'azione ha inizio in un cortile dove delle donne vestite in nero giocano a tombola. Ai frizzi e ai doppi sensi del gioco si mescolano preghiere ai santi perché mandino dei segni, medianti i quali vincere al Lotto. Man mano il gioco si scalda fino a che una donna scopre che uno dei presenti è un uomo travestito da donna. Si grida alla scandalo, l'uomo viene spogliato e con un canto ed una azione mimica lo si ammazza simbolicamente. Ha termine così la prima scena e si chiudono le porte del palazzo. In proscenio ha luogo un commento recitato atto ad introdurre la storia di Cenerentola. Si riapre infatti il portone e si vedono tre donne che cantando una villanella, precisano la posizione femminile della donna napoletana e le sue aspirazioni. Una delle tre donne è Cenerentola la quale alla fine del canto è rimproverata dalla matrigna (il cui ruolo è coperto da un uomo). Vanno via le altre due donne e la matrigna nervosamente sfoga le sue ansie con Cenerentola, dovendosi recare con le figlie al ballo del re. Arriva una pettinatrice la quale pettina la matrigna e costei nel farsi pettinare racconta la propria vita. Viene così esposto un canto, mediante il quale ella confessa di avere avuto sette mariti, tutti morti nella prima notte di nozze. Da ognuno di loro è nata una figlia ed eccole infatti: sono Patrizia, Imperia, Diamante, Calamita, Sciorella e Pascarella. La pettinatrice va via e la matrigna invita le figlie a vestirsi (tutte le figlie sono egualmente uomini travestiti). Le figlie si ritirano tranne Patrizia, la prediletta, che è vestita grottescamente da una sarta. Si sente il rumore di una carrozza e la matrigna con la figlia si avviano al ballo. Cenerentola rimasta sola, innaffia una pianta, libera una colomba e si accinge a recitare il rosario. Dal fondo allora, fantasticamente vengono quattro donne vestite di nero (ancora uomini travestiti), che recitano un rosario dissacrando grottescamente la figura del padre e della madre. Appare un "monacello" figura magica napoletana, che invita Cenerentola a recarsi al ballo. A tale uopo traccia dei segni magici con un corno e una scopa e incomincia ad evocare gli oggetti e gli abiti incantati. L'azione si tinge di ambiguità: Cenerentola si spoglia e il "monacello" le fa indossare le calze, le scarpe, gli orecchini. Il ritmo incalza e nel momento che Cenerentola sta per indossare il magico abito ha termine la prima parte. La seconda parte ha inizio con un canto col quale si esprime un desiderio di trasformazione delle cose e delle persone: "Vurria addeventare la palomma" nel frattempo la scena si trasforma nel fantastico palazzo reale la cui struttura ricorda anche le barocche chiese napoletane. Quattro cameriere intrecciano un dialogo mentre corrono da un punto all'altro della scena come se servissero un "buffet" a base di liquori, di dolciumi e di polli farciti. Passa anche la matrigna con la figlia Patrizia e sottolinea verso le cameriere il suo atteggiamento negativo e repressivo. A un certo punto squillano le campanelle di una immaginaria carrozza. Entrano degli orientali e un personaggio piumato (travestimento gallinaceo). Tutti intonano una ambigua "moresca". Cenerentola appare abbigliata nel modo più sontuoso. Tutti spariscono, ella resta sola nel salone dove troneggia, una barocca sedia seicentesca. Cenerentola dialoga con un invisibile re e racconta di avere ammazzato la sua prima matrigna. Prima della mezzanotte scappa mentre riprende il canto della precedente moresca. È la seconda sera del ballo: Cenerentola ritorna indossando il secondo abito e nel breve dialogo dice al re di essere "figlia della Madonna" e figlia di nessuno (ossia trovatella al brefotrofio) indi al servizio della matrigna. Scappa di nuovo e si ripete la stessa azione della moresca. La terza notte del ballo ella indossa l'abito col sole e la luna. Invitata dall'invisibile re, siede sul trono e racconta la favola di Cenerentola nella poetica e semplice versione contadina. La scena si illumina di azzurro sempre più chiaro fino ad evidenziare uno scenario di piante e di alberi di limoni, che si intravede attraverso gli archi della struttura barocca. Scocca la mezzanotte. Scoppia un furioso temporale, durante il quale lei scappa mentre il coro intona una drammatica tarantella. Cenerentola perde la magica scarpa. La scena si rabbuia completamente, poi mentre si esegue un intermezzo musicale si rischiara di nuovo. Siamo ancora nello stesso cortile napoletano dove quattro lavandaie lavano delle lenzuola e commentano l'episodio della sera precedente: una ragazza è andata al ballo ed ha perso una scarpa. Il re sposerà quella che calzerà la scarpetta perduta. Interviene una zingara incinta, e predicendo la fortuna, dice però che già una scarpa era stata perduta dalla Madonna di Piedigrotta. S'intona una canzone ironica sulla condizione della donna che aspira a sposarsi solo per diventare una "Madonna". Il canto viene interrotto dalle grida di una lavandaia la quale ha scoperto che la zingara è incinta perché ruba i loro panni e nascondendoli sotto le vesti, simula una eterna maternità. La zingara scappa ed interviene un "arriffatore", cioè un omosessuale che porta una bambola in mano simile alla Cenerentola del ballo. Egli vorrebbe venderla alla riffa. Ridono le donne per la sua condizione ma si accorgono che la bambola non ha una scarpa. L'uomo spiega ironicamente che "quella puttana" ha ballato col re perdendo la scarpa. Le donne iniziano un canto-gioco tendente ad eccitare l'omosessuale. Costui balla con la bambola e incomincia ad eccitarsi con le quattro lavandaie. Ma costoro si spaventano e lo invitano a gettarsi in un pozzo che è in scena. L'omosessuale si suicida mentre la scena si rabbuia. Il canto prosegue per invocare il ritorno del sole e così fare asciugare i panni stesi. Nel frattempo le donne tirano la corda attaccata alla carrucola del pozzo da cui viene fuori un bambino in fasce. La scena si rischiara e viene un orientale il quale al suono di un tamburo e di un piffero porta la scarpa perduta per farla provare a tutte le ragazze da marito. Interviene la matrigna e la sorellastra che vorrebbe per prima fare la prova. Le lavandaie si ribellano e scoppia una rissa densa di invettive e di pesanti ingiurie. La rissa è interrotta dal monacello che indica Cenerentola vera proprietaria della scarpa. Si fa la prova e la magica scarpa viene infilata al piede della ragazza da un bambino vestito da infante reale. La prova è compiuta, Cenerentola si allontana lentamente col seguito. Nel cortile riprende il gioco della tombola mentre si chiudono le porte del palazzo e quindi il sipario.
A conclusione di tutto vorrei aggiungere questo: e cioè che tutta l'esposizione riguardante i miti antichi e l'analisi condotta non è assolutamente una giustificazione indispensabile all'azione teatrale. Quello che è stato esposto può costituire un retroterra culturale, non vuole essere assolutamente una dotta disquisizione atta a giustificare e a valorizzare un'azione teatrale. Il teatro è teatro né si è costruito un testo e una musica da tradurre solo in elucubrazioni intellettuali. L'azione è estremamente semplice e nella sua teatralità si può giustificare e si deve recepire sia pure a livelli diversi. Il linguaggio usato non è né oscuro, né per iniziati o "addetti ai lavori" solamente. Gli elementi simbolici sono stati elaborati spontaneamente e così usati nel tessuto teatrale dell'azione. Essi sono stati impiegati perché facenti parte dell'interno emotivo di chi li ha usati e collocati fantasticamente nell'azione. In tal senso un'adesione ci può essere da parte di chi assiste non per il colto presupposto, ma perché i contenuti sintetizzati dai segni impiegati, sono gli stessi di qualsiasi umanità e sono comunicati con un linguaggio massimamente emotivo. Se, come si diceva, la premessa apparisse una pretenziosa giustificazione e fosse intesa come una guida per intendere solo "razionalmente" la stessa favola, essa deve ritenersi un involontario errore di chi l'ha scritta.
Roberto De Simone
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Giambattista Basile
e
"Lo cunto de li cunti o Lo trattenimiento de' piccirielle"
Giambattista Basile:
Da giovane fu soldato mercenario al servizio della Repubblica della Serenissima, spostandosi tra Venezia e Candia, l'odierna Creta. In questo periodo, l'ambiente della colonia veneta dell'isola gli permise di frequentare una società letteraria, l'Accademia degli Stravaganti. I primi documenti della sua produzione letteraria pervenutici sono del 1604 e sono costituiti da alcune lettere scritte come sorta di prefazione alla Vaiasseide dell'amico e letterato napoletano Giulio Cesare Cortese.L'anno seguente viene messa in musica la sua villanella Smorza crudel amore. Rientrato a Napoli nel 1608, pubblica il suo poemetto Il Pianto della Vergine. Nel 1611 prese servizio alla corte di Luigi Carafa, principe di Stigliano, al quale dedicò un testo teatrale, Le avventurose disavventure e successivamente seguì la sorella Adriana, celebre cantante dell'epoca alla corte di Vincenzo Gonzaga a Mantova, entrando a far parte della Accademia degli Oziosi. Curò fra l'altro la prima edizione delle rime di Galeazzo di Tarsia.(Adriana Basile tenne il primato del canto nella penisola ai tempi in cui si impose la figura della virtuosa) Nella città lombarda fece stampare madrigali dedicati alla sorella, e odi e, nel 1613 le Egloghe amorose e lugubri, seconda edizione riveduta ed ampliata de Il Pianto della Vergine ed il dramma in cinque atti La Venere addolorata. Tornato a Napoli, fu governatore di vari feudi per conto di alcuni signori meridionali. Nel 1618 uscì L'Aretusa, un idillio dedicato al principe Caracciolo di Avellino e l'anno seguente un testo teatrale in cinque atti Il Guerriero amante.Morì a Napoli, nel 1632. L'Italia possiede nel Cunto de li cunti del Basile il più antico, il più ricco e il più artistico fra tutti i libri di fiabe popolari... »(Benedetto Croce, premessa a Lo cunto de li cunti, Laterza, Bari, 1925) Scritta in lingua napoletana, quest'opera , secondo la prolissa moda barocca, si declinava in altri nomi: Le muse napolitane, Lo trattenemiento de peccerille e infine il Pentamerone Quest'ultimo titolo risulta più appropiato in quanto l'opera si ispira evidentemente alla raccolta di novelle (Decameron) di Boccaccio, ma con alcune differenze: le giornate sono la metà (5 anziché 10) e ridotto alla metà è anche il numero delle novelle (50 anziché 100, tra cui 49 raccontate dalle narratrici più 1 che fa da cornice alla storia); i narratori sono dieci vecchiette caratterizzate da difetti fisici. Al posto delle elette gentildonne favolatrici, Pampinea, Fiammetta, Neifile, qui troviamo Zeza sciancata, Cecca storta, Meneca gozzuta, Tolla nasuta, Popa gobba, Antonella bavosa, Ciulla musuta, Paola scerpellata, Ciommetella tignosa e Iacova squarquoia: un vero e proprio congresso di lamie. È vero che costoro, scelte dal re di Vallepelosa come le migliori della città, essendo le più svelte e linguacciute, favoleggiano nei giardini reali. Ma che giardini reali son questi! Invece di alberi solenni, una semplice pergola d'uva: il giardino reale si riduce alle proporzioni d'un modesto orto suburbano. E che re son quelli dei «cunti» del Basile! Che cosa inventa uno di essi per distrarre la figlia che non sapeva ridere? Niente di meglio che schizzare con una fontana d'olio le persone che passano dinanzi alla reggia. Trovata allegra degna di quello che doveva essere un re napoletano, il re Lazzarone, che per mettere il buonumore addosso alla delicata sua sposa, le toglieva di sotto la sedia facendola cadere. (Il che dimostra che Ferdinando I fu un prodotto inevitabile di quello stesso ambiente che produsse le fiabe del Basile.) Un altro re deve abitare in un ben curioso palazzo, se non può fare uno sbadiglio senza irritare due vecchiacce che vivono in un giardino su cui guardano le sue finestre. Un altro se ne sta affacciato alla finestra per trovar marito alla figlia; e v'è un principe che rapisce la bella non già su un cavallo alato, ma su un modesto asino, e ve n'è un altro che fa alle sassate coi monelli di strada. »(Mario Praz, Il «Cunto de li cunti» di G.B.Basile, in Bellezza e bizzarria. Saggi scelti, Mondadori, Milano, 2002) Più che novelle, le storie narrate da Basile sono fiabe tratte in genere dalla tradizione popolare, che l'autore trasforma però in prodotti letterari, con l'uso di un dialetto più colto di quello effettivamente parlato e con l'inserimento di notazioni ironiche e commenti moralistici. L'opera di Basile fu una fonte di ispirazione per altri autori di fiabe e favole, come Charles Perrault o i fratelli Grimm. Infine la scelta di scrivere in lingua napoletana corrisponde alla tendenza propria dell'età barocca di sperimentare nuovi e più attuali modi espressivi.
Saperrite donca che era na vota no principe vidolo, lo quale aveva na figliola accossì cara che no vedeva ped autro uocchio; a la quale teneva na maiestra princepale, che la ’nmezzava le catenelle, lo punto ’n aiero, li sfilatielle e l’afreco perciato, monstrannole tant’affezzione che non s’abbasta a dicere. Ma, essennose ’nzorato de frisco lo patre e pigliata na focoliata marvasa e ’miciata de lo diantane, commenzaie sta mardetta femmena ad avere ’nsavuorrio la figliastra, facennole cere brosche, facce storte, uocchie gronnuse de farela sorreiere, tanto che la scura peccerella se gualiava sempre co la maiestra de li male trattamiente che le faceva la matreia, dicennole: «O dio, e non potisse essere tu la mammarella mia, che me fai tante vruoccole e cassesie?». E tanto secotaie a fare sta cantelena che, puostole no vespone a l’aurecchie, cecata da mazzamauriello, le disse na vota: «Se tu vuoi fare a muodo de sta capo pazza, io te sarraggio mamma e tu me sarrai cara comm’a le visciole de st’uocchie». Voleva secotiare a dicere quanno Zezolla (che cossì la figliola aveva nomme) disse: «Perdoname, si te spezzo parola ’n mocca. Io saccio ca me vuoi bene, perzò zitto e zuffecit: ’nmezzame l’arte, ca vengo da fore, tu scrive io firmo». «Ora susso – le precaie la maiestra – siente buono, apre l’aurecchie e te venerà lo pane ianco comm’a li shiure. Comme esce patreto, di’ a matreiata ca vuoi no vestito de chille viecchie che stanno drinto lo cascione granne de lo retretto, pe sparagnare chisto che puorte ’n cuollo. Essa, che te vo’ vedere tutta pezze e peruoglie, aprerà lo cascione e dirrà: “Tiene lo coperchio”. E tu, tenennolo, mentre iarrà scervecanno pe drinto, lassalo cadere de botta, ca se romparrà lo cuollo. Fatto chesto, tu sai ca patreto farria moneta fauza pe contentarete e tu, quanno te fa carizze, pregalo a pigliareme pe mogliere, ca, viata te, ca sarrai la patrona de la vita mia». ’Ntiso chesto Zezolla le parze ogn’ora mill’anne e, fatto compritamente lo conziglio de la maiestra, dapo’ che se fece lo lutto pe la desgrazia de la matreia, commenzaie a toccare li taste a lo patre, che se ’nzorasse co la maiestra. Da principio lo principe lo pigliaie a burla; ma la figliola tanto tiraie de chiatto fi’ che couze de ponta, che a l’utemo se chiegaie a le parole de Zezolla e pigliatose Carmosina, ch’era la maiestra, pe mogliere fece na festa granne. Ora, mentre stavano li zite ’n tresca, affacciatase Zezolla a no gaifo de la casa soia, volata na palommella sopra no muro, le disse: «Quanno te vene golio de quarcosa, manna l’addemannare a la palomma de le fate a l’isola de Sardegna, ca l’averrai subito». La nova matreia pe cinco o seie juorne affummaie de carizze a Zezolla, sedennola a lo meglio luoco de la tavola, dannole lo meglio muorzo, mettennole li meglio vestite. Ma, passato a mala pena no poco de tiempo, mannato a monte e scordato affatto de lo servizio receputo (oh, trista l’arma c’ha mala patrona!) commenzaie a mettere ’mpericuoccolo seie figlie soie, che fi’n tanno aveva tenuto secrete e tanto fece co lo marito che, receputo ’n grazia le figliastre, le cadette da core la figlia propia, tanto che, scapeta oje manca craie, venne a termene che se redusse da la cammara a la cocina e da lo vardacchino a lo focolare, da li sfuorge de seta e d’oro a le mappine, da le scettre a li spite, né sulo cagnaie stato, ma nomme perzì, che da Zezolla fu chiammata Gatta Cennerentola. Soccesse c’avenno lo principe da ire ’n Sardegna pe cose necessarie a lo stato suio, dommannaie una ped una a ’Mperia Calamita Shiorella Diamante Colommina Pascarella, ch’erano le seie figliastre, che cosa volessono che le portasse a lo retuorno: e chi le cercaie vestite da sforgiare, chi galantarie pe la capo, chi cuonce pe la faccia, chi jocarielle pe passare lo tiempo e chi na cosa e chi n’autra. Ped utemo, quase pe delieggio, disse a la figlia: «E tu, che vorrisse?». Ed essa: «Nient’autro, se non che me raccommanne a la palomma de le fate, decennole che me manneno quarcosa; e, si te lo scuorde, non puozze ire né ’nanze né arreto. Tiene a mente chello che te dico: arma toia, maneca toia». Iette lo principe, fece li fatte suoie ’n Sardegna, accattaie quanto l’avevano cercato le figliastre e Zezolla le scie de mente. Ma, ’nmarcatose ’ncoppa a no vasciello e facenno vela, non fu possibele mai che la nave se arrassasse da lo porto, e pareva che fosse ’mpedecata da la remmora. Lo patrone de lo vasciello, ch’era quase desperato, se pose, pe stracco, a dormire e vedde ’n suonno na fata, che le disse: «Sai perché non potite scazzellare la nave da lo puorto? Perché lo principe che vene con vui ha mancato de promessa a la figlia, allecordannose de tutte fora che de lo sango proprio». Se sceta lo patrone, conta lo suonno a lo principe, lo quale, confuso de lo mancamiento c’aveva fatto, ieze a la grotta de le fate, e, arrecommannatole la figlia, disse che le mannassero quarcosa. E ecco scette fora da la spelonca na bella giovane, che vedive no confalone, la quale le disse ca rengraziava la figlia de la bona memoria e che se gaudesse ped ammore suio. Cossì decenno le dette no dattolo, na zappa, no secchietiello d’oro e na tovaglia de seta, dicenno che l’uno era pe pastenare e l’autra pe coltevare la chianta. Lo principe, maravigliato de sto presento, se lecenziaie da la fata a la vota de lo paiese suio e, dato a tutte le figliastre quanto avevano desiderato, deze finalmente a la figlia lo duono che le faceva la fata. La quale, co na preiezza che non capeva drinto la pella, pastenaie lo dattolo a na bella testa; lo zappoleiava, adacquava e co la tovaglia de seta matino e sera l’asciucava, tanto che ’n quatto juorne cresciuto quanto è la statura de na femmena ne scette fora na fata, dicennole: «Che desidere? ». Alla quale respose Zezolla che desiderava quarche vota de scire fora de casa, né voleva che le sore lo sapessero. Leprecaie la fata: «Ogne vota che t’è gusto, vieni a la testa e dì: Dattolo mio naurato, co la zappetella d’oro t’aggio zappato, co lo secchietiello d’oro t’aggio adacquato, co la tovaglia de seta t’aggio asciuttato; spoglia a te e vieste a me! E quanno vorrai spogliarete, cagna l’utemo vierzo, decenno: Spoglia a me e vieste a te! ». Ora mo, essenno venuta la festa e sciute le figlie de la maiestra tutte spampanate sterliccate ’mpallaccate, tutte zagarelle campanelle e scartapelle, tutte shiure adure cose e rose, Zezolla corre subeto a la testa e, ditto le parole ’nfrocicatole da la fata, fu posta ’n ordene comme na regina e, posta sopra n’acchinea con dudece pagge linte e pinte, iette addove ievano le sore, che fecero la spotazzella pe le bellezze de sta penta palomma. Ma, comme voze la sciorte, venette a chillo luoco stisso lo re, lo quale, visto la spotestata bellezza de Zezolla, ne restaie subeto affattorato e disse a no servetore cchiù ’ntrinseco che se fosse ’nformato come potesse ’nformare sta bellezza cosa, e chi fosse e dove steva. Lo servetore a la medesema pedata le ieze retomano: ma essa, adonatose dell’agguaito, jettaie na mano de scute ricce che s’aveva fatto dare da lo dattolo pe chesto effetto. Chillo, allummato li sbruonzole, se scordaie de secotare l’acchinea pe ’nchirese le branche de fellusse ed essa se ficcaie de relanzo a la casa, dove, spogliata che fu comme le ’nmezzaie la fata, arrivaro le scerpie de le sore, le quale, pe darele cottura, dissero tante cose belle che avevano visto. Tornaie fra sto miezo lo servetore a lo re e disse lo fatto de li scute; lo quale, ’nzorfatose co na zirria granne, le disse che pe quatto frisole cacate aveva vennuto lo gusto suio e che in ogne cunto avesse, l’autra festa, procurato de sapere chi fosse la bella giovane e dove s’ammasonasse sto bello auciello. Venne l’autra festa e, sciute le sore tutte aparate e galante, lassaro la desprezzata Zezolla a lo focolaro; la quale subeto corre a lo dattolo e, ditto le parole solete, ecco scettero na mano de dammecelle. Chi co lo schiecco, chi co la carrafella d’acqua de cocozze, chi co lo fierro de li ricce, chi co la pezza de russo, chi co lo pettene, chi co le spingole, chi co li vestite, chi co la cannacca e collane e, fattala bella comme a no sole, la mesero a na carrozza a seie cavalle, accompagnata da staffiere e da pagge de livrera e, jonta a lo medesemo luoco dove era stata l’autra festa, agghionze maraviglia a lo core de le sore e fuoco a lo pietto de lo re. Ma, repartutase e iutole dereto lo servetore, pe no farese arrivare jettaie na vranca de perne e de gioie, dove, remasose chill’ommo dabene a pizzoliarennelle, ca non era cosa da perdere, essa ebbe tiempo de remmorchiarese a la casa e de spogliarese conforme a lo soleto. Tornaie lo servetore luongo luongo a lo re, lo quale disse: «Pe l’arma de li muorte mieie, ca si tu non truove chessa, te faccio na ’ntosa e te darraggio tante cauce ’n culo quante aie pile a ssa varva». Venne l’autra festa e, sciute le sore, essa tornaie a lo dattolo e, continovanno la canzona fatata, fu vestuta soperbamente e posta drinto na carrozza d’oro, co tante serviture attuorno che pareva pottana pigliata a lo spassiggio ’ntorniata de tammare. E, iuta a fare cannavola a le sore, se partette, e lo servetore de lo re se cosette a filo duppio co la carrozza. Essa, vedenno che sempre l’era a le coste, disse: «Tocca, cocchiero», e ecco se mese la carrozza a correre de tutta furia e fu cossì granne la corzeta che le cascaie no chianiello; che non se poteva vedere la cchiù pentata cosa. Lo servetore, che non potte jognere la carrozza che volava, auzaie lo chianiello da terra e lo portaie a lo re, dicennole quanto l’era socceduto. Lo quale, pigliatolo ’n mano, disse: «Se lo pedamiento è cossì bello, che sarrà la casa? O bello canneliero, dove è stata la cannela che me strude! O trepete de la bella caudara, dove volle la vita! O belle suvare attaccate a la lenza d’Ammore, co la quale ha pescato chest’arma! Ecco, v’abbraccio e ve stregno e, si non pozzo arrevare a la chianta, adoro le radeche e si non pozzo avere li capitielle, vaso le vase! Già fustevo cippe de no ianco pede, mo site tagliole de no nigro core. Pe vui era auta no parmo e miezo de cchiù chi tiranneja sta vita e pe vui cresce autrotanto de docezza sta vita, mentre ve guardo e ve possedo». Cossì dicenno chiamma lo scrivano, commanna lo trommetta e tu tu tu fa jettare no banno: che tutte le femmene de la terra vengano a na festa vannuta e a no banchetto, che s’ha puosto ’n chiocca de fare. E, venuto lo juorno destenato, oh bene mio: che mazzecatorio e che bazzara che se facette! Da dove vennero tante pastiere e casatielle? Dove li sottestate e le porpette? Dove li maccarune e graviuole? Tanto che nce poteva magnare n’asserceto formato. Venute le femmene tutte, e nobele e ’gnobele e ricche e pezziente e vecchie e figliole e belle e brutte e, buono pettenato, lo re, fatto lo profizzio, provaie lo chianiello ad una ped una a tutte le commitate, pe vedere a chi iesse a capillo ed assestato, tanto che potesse canoscere da la forma de lo chianiello chello che ieva cercanno. Ma, non trovanno pede che nce iesse a siesto, s’appe a desperare. Tuttavota, fatto stare zitto ogn’uno, disse: «Tornate craie a fare n’autra vota penetenzia co mico. Ma, se mi volite bene, non lasciate nesciuna femmena a la casa, e sia chi si voglia». Disse lo principe: «Aggio na figlia, ma guarda sempre lo focolaro, ped essere desgraziata e da poco e non è merdevole de sedere dove magnate vui». Disse lo re: «Chesta sia ’n capo de lista, ca l’aggio da caro». Cossì partettero e lo juorno appriesso tornaro tutte e, ’nsiemme con le figlie de Carmosina venne Zezolla, la quale, subeto che fu vista da lo re, l’ebbe na ’nfanzia de chella che desiderava, tuttavota semmolaie. Ma, fornuto de sbattere, se venne a la prova de lo chianiello, ma non tanto priesto s’accostaie a lo pede de Zezolla, che se lanzaie da se stisso a lo pede de chella cuccupinto d’Ammore, comme lo fierro corre a la calamita. La quale cosa vista lo re, corze a farele soppressa de le braccia e, fattola sedere sotto lo vardacchino, le mese la corona ’n testa, commannanno a tutte che le facessero ’ncrinate e leverenzie, comme a regina loro. Le sore vedenno chesto, chiene de crepantiglia, non avenno stommaco de vedere sto scuoppo de lo core lloro, se la sfilaro guatto guatto verso la casa de la mamma, confessanno a dispietto loro ca pazzo è chi contrasta co le stelle.
5 SEGNI BAROCCHI: Grottesco incanto de " Lo cunto de li cunti"
“Grottesco incanto de ‘li cunti’”: è la mostra dell’architetto e scenografa Mariella Carbone, che questa mattina, a Palazzo Trinci, ha ufficialmente inaugurato il XXXI “Segni Barocchi Festival”. Si tratta del secondo intervento del progetto di mostre sulla fiaba barocca del Festival folignate. “Grottesco incanto de ‘li cunti’” intende tradurre e reinterpretare, in immagini, illustrazioni, figure e maschere, le suggestioni nate dalla lettura appassionata de “Lu cunto de li cunti” (1634-1636) di Giambattista Basile (1566 o 1575-1632), letterato e scrittore italiano di epoca barocca, primo a utilizzare la fiaba come forma di espressione popolare. Il libro del “Boccaccio napoletano” si ispira evidentemente proprio al “Decameron” di Giovanni Boccaccio, ma con alcune differenze: le giornate sono la metà (5 anziché 10) e ridotto alla metà è anche il numero delle novelle (50 anziché 100, tra cui 49 raccontate dalle narratrici più 1 che fa da cornice alla storia). E’ nel racconto del divertente e appassionato inizio, sviluppo ed epilogo della storia che si è concentrata Mariella Carbone, prima di lasciare i visitatori a scoprire in libertà il percorso, allestito su progetto della stessa assieme a Antonio D’Arco, tra le stanze di Palazzo Trinci. Tra i primi, meravigliati, visitatori, l’Assessore alla Cultura, Elisabetta Piccolotti, l’ex Sindaco del Comune di Foligno, Manlio Marini, il Soprintendente Artistico del Segni Barocchi Festival, Massimo Stefanetti e la Responsabile dell’Ufficio Musei di Foligno e Colfiorito, Anna Maria Menichelli. L’allestimento si propone di creare un’esperienza sensoriale, catturando alcune atmosfere dal libro, soprattutto quelle fatte di contrasti e specularità: lo scurrile e la poesia, l’erotismo e il sentimento, l’incanto e il grottesco. Le scene, gli oggetti e le illustrazioni diventano rilettura degli elementi e dei temi, della “ratatouille”, della “minestra maritata” presente nelle favole del Basile, ma anche nella Napoli di oggi. La dimensione teatrale è il tema dominante dell’allestimento e accompagna il visitatore ad attraversare le stanze/racconto. Egli diventa “osservatore-osservato”, muovendosi entro scene popolate da maschere grottesche, oggetti magici, streghe, fate, orchi, re, principesse e popolane, in un gioco di “ars combinatoria” con altri personaggi dell’immaginario e della letteratura seicentesca, ma anche con oggetti e sculture in ferro realizzate da Antonio D’Arco. Il registro espressivo di Mariella Carbone muove dai canoni della commedia dell’arte e del teatro popolare di strada e “pesca” liberamente dal mondo e dall’iconografia del Barocco. Palazzo Trinci ospita, quale teatro ideale, il percorso illustrativo e scenico che si apre nella scala gotica, fulcro di tutto l’allestimento e continua nella “Stanza della corte e delle 10 narratrici”, con i protagonisti principali del libro di Basile, e nella “Stanza degli oggetti e figure magiche” dei racconti, personaggi onirici di un profano presepe napoletano. Il percorso si conclude nella “Stanza de lo cunto” dove illustrazioni e brani recitati dalla voce di Maurizio Merolla, attore e regista teatrale, danno corpo ad una delle storie più intriganti, ironiche, scurrili e moderne del testo di Basile, “La vecchia scorticata”. Il catalogo/libro d’artista (10€) di VIAINDUSTRIAE che viene editato per l’occasione cerca di rileggere il testo di Basile e la trama visiva della mostra registrando il caleidoscopico immaginario fatto di ombre, figure deformate e incanti di vita quotidiana. Mariella Carbone è da venti anni autrice di maschere e “pupazze”, ospitate da compagnie di teatro di figura italiane ed internazionali, festival, musei e collezioni private. Da qualche tempo si dedica anche all’illustrazione di favole e storie della tradizione.
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Fate e regine così barocche così napoletane
Cinquanta fiabe distribuite in cinque giornate, il capolavoro secentesco elogiato da Croce restituito nella sua veste linguistica originaria di GIANLUIGI BECCARIA
Nella collana dei novellieri italiani della editrice Salerno è appena uscito in due grossi tomiLo cunto de li cunti, overo lo trattamento de’ peccerille di Giovan Battista Basile, «il più bel libro italiano barocco» secondo Croce. Lo ha curato Carolina Stromboli, con ricco apparato di note, ampia introduzione, dettagliata nota filologica finale. Il testo è ricostruito con rigore, restituito nella sua veste linguistica originaria (un frizzante napoletano arcaico, accompagnato naturalmente da traduzione in italiano).
Del Cunto non ci è giunto alcun manoscritto. L’opera ha conosciuto sei edizioni complete nel Seicento, cinque nel Settecento, poi più nulla fino all’edizione (1871) di Benedetto Croce (ma l’edizione comprendeva le sole prime due giornate). Il Cunto è pubblicato postumo tra il 1634 e il 1636 (si ha notizia soltanto di tre esemplari completi, uno di questi conservato nella Biblioteca Nazionale di Torino). Si deve attendere il 1976 per un’edizione critica completa dell’opera, a cura di Mario Petrini, e nell’86 esce l’edizione di Michele Rak. Tradotto nelle principali lingue europee, il Cunto era diventato un fortunato strumento di intrattenimento cortigiano. Particolare diffusione aveva conosciuto nella seconda metà del sec. XVII, alla corte del Re Sole. La fortuna cresce ulteriormente nel secolo dei Lumi, età che mostra una singolare curiosità per la narrativa fantastica, e l’interesse per le fiabe si accresce ancor più nell’Ottocento, se pensiamo alla raccolta dei fratelli Grimm, alle fiabe russe di Afanasjev, in Italia alle Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani di Pitré.
Nelle fiabe del Basile compaiono i soliti elementi magici e i personaggi canonici, fate, orchi, incantesimi, re e regine, e sono rappresentati i «tipi» e i «motivi» ricorrenti del genere, da Cenerentola alla bella addormentata, al gatto con gli stivali (anticipato dallo Straparola delle Piacevoli notti), e l’asino cacadenari, il tovagliolo magico, il bastone che si anima a comando, una storia del tipo Hänsel e Gretel, e Prezzemolina, o la fanciulla che non ride mai, la matrigna cattiva, le sorelle invidiose, lo sciocco fortunato, la fanciulla dalle mani mozze ecc.
Il Cunto raccoglie cinquanta fiabe distribuite in cinque giornate (più tardi fu appunto chiamato Pentamerone, prendendo a modello il titolo del Decameron). La lingua è di strepitoso interesse: si distende nelle volute di un espressivo ed esuberante napoletano, esplode in esibizioni barocche, in travolgenti figure retoriche, si orna di ripetizioni ad oltranza e ricercati doppi sensi, e deformazioni scherzose, giochi di parole, ardite metafore, accompagnate dal basso continuo delle suggestioni foniche. La gioia di raccontare si sprigiona dall’edonistico accumulo lessicale, nella moltiplicazione sinonimica, l’immaginifico scoppiettio di concetti «arguti» (per esempio quando, rovesciando gli attacchi canonici dei poemi della poesia in lingua, Basile descrive albe e tramonti). Ma la lingua baroccamente atteggiata resta sempre concreta e corposa, il dialetto parla alla gente del popolo, e insieme parla al lettore colto, ai conoscitori della più raffinata letteratura in lingua.
In Europa il testo del Basile è stato molto gustato, e dalla critica italiana molto discusso. Secondo Croce la scelta del dialetto era un modo per rispondere al gusto barocco per il nuovo e per lo strano. Pare più verosimile l’ipotesi di Nicola De Blasi, secondo il quale la scelta dialettale si configura non tanto in chiave antitoscana, quanto piuttosto «come alternativa di fatto allo spagnolo dei dominatori». A Croce il napoletano sembrava «piuttosto che a un linguaggio storicamente parlato, arieggiare a uno di quei linguaggi, come il maccheronico o il fidenziano, creati agli artisti e per ragioni artistiche». Insomma, un lingua finta. Scorrendo testo e note di questa nuova edizione si vede invece meglio di prima come il napoletano di Basile non sia una lingua inventata, ma (nonostante l’alto grado di letterarietà) la vera lingua popolare della Napoli del Seicento.
La valenza comunque è plurima: il Cunto de li cunti resta una testimonianza indispensabile del suo tempo e della cultura popolare (tante le locuzioni, i proverbi, i nomi di balli, canti, giochi infantili), un documento prezioso degli usi, dei costumi e delle credenze, dei fatti storici, dei luoghi della Napoli secentesca, ma insieme brilla di sfrenata fantasia letteraria, come una fabbrica immaginosa di castelli in aria, «castielle ne l’aiero».
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"C'era una volta..."
Chiaramente ispirato al Basile,il film "C'era una volta" di Francesco Rosi:
In un paese del sud Italia del'600, sotto la dominazione spagnola, vive la splendida Isabella, popolana abilissima in cucina sia a preparare che a lavare i piatti, che vive di piccoli espedienti (tra cui quello in cui, con l'aiuto di ragazzini, vende un asino ad un ricco mercante facendogli credere che defechi oro). Amico della ragazza è un frate, Giuseppe da Copertino, un monaco in vena di santità che svolazza sui tetti del convento, e che di lì a poco morirà. Un giorno, vestito in panni borghesi, capita da quelle parti il principe (Omar Sharif), che, invaghitosi immediatamente di Isabella e per metterla alla prova, le chiede di preparargli sette gnocchi, come gli aveva consigliato Giuseppe da Copertino . Inevitabilmente, dopo interminabili battibecchi e dopo averle rivelato la propria identità, tra lui ed Isabella scoppia l'amore, ma a causa dell'intervento dei soldati spagnoli mandati in paese dal re suo padre, il principe è costretto a tornare al suo palazzo. Isabella così si presenta al palazzo, venendovi assunta come lavapiatti, pur di stare vicino al suo amato, dal quale si fa rintracciare grazie ad una striscia di farina che, dalla camera da letto di lui, arriva fino al giaciglio di lei nella cucina. Ma egli, non potendo sposare una popolana, la eleva al rango di Principessa dell'immaginario feudo di Caccavone; e per riuscire ad impalmarla bandisce una gara: tra varie pretendenti di sangue blu, solo colei che romperà meno piatti durante il lavaggio potrà sposarlo. Nel frattempo, un incantesimo della strega trasformerà in pulcini le mille uova che sarebbero dovute servire per preparare un'enorme frittata. Sicuro della vittoria della sua Isabella, il principe assiste alla gara; ma la malvagia Principessa di Altamura, con l'aiuto di un anello tagliente, ha rotto vari piatti di Isabella prima dell'inizio. La poverina, uscendo sconfitta, fugge via piangendo tra i biasimi del suo amato, correndo fino alla spiaggia. E qui le viene in soccorso il Beato Giuseppe da Copertino che, rivelatali l'inganno, la incoraggia a farsi valere. Ritornata travestita al palazzo invaso di gente per il matrimonio del principe, Isabella smaschera pubblicamente la rivale, potendo così riunirsi al suo amato. (Wikipedia)
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BAROCCO è IL MONDO DEL RACCONTO DEI RACCONTI
(critica di Goffredo Fofi al film di Garrone)
Ci s’interroga subito sul senso di questa operazione e si cercano risposte che il film dà solo in parte, o che non corrispondono sempre alle prime considerazioni che vengono in mente.
Perché un classico della fiaba (e della novellistica, ma la novellistica – Boccaccio – è spesso borghese, la fiaba – Basile, Pitrè – ha sempre origini popolari, e orali), che purtroppo la maggior parte dei lettori italiani ancora ignora? Perché un film ascrivibile al genere del fantasy, ma diverso da (e anzi in concorrenza con) le maxi puttanate hollywoodiane e le spielbergate? Perché un film in fuga dalla storia e dalla nostra contemporaneità mutante e perché la fascinazione dei seicento, del barocco? Perché questa propensione per l’horror? Eccetera.
Il racconto dei racconti ci comunica una sensazione di anacronismo ma non di sfida, di deviazione ma non di provocazione. Eppure non si riesce a considerarlo come una vacanza dell’autore da temi più attuali e più forti (anche se i legami con gli altri suoi film ci sono e come, non solo con i morbosi Primo amore e L’imbalsamatore, anche con la fiaba moderna Reality e le cronache nere di Gomorra).
Chiaramente il suo impegno è stato enorme: si è fatto anche produttore-organizzatore e ha pensato e voluto il suo film per un pubblico internazionale, in concorrenza col cinema più costoso e spettacoloso. Ha voluto correre grandi rischi, e c’è anche la possibilità che debba pagarne lo scotto, perché è difficile pensare a un successo di pubblico grande come quello che deve avere sognato: Il racconto dei racconti non è affatto un film astuto e facile e si tratta pur sempre, e come sempre con Garrone, di un “film d’autore”.
Dunque: perché? Ipotizziamo. Il seicento è un secolo che somiglia molto al nostro, viene dopo una grande mutazione, il cambiamento dell’immagine del mondo e della storia del pianeta con la scoperta dell’America e la conquista; il barocco ci appartiene forse oggi come non mai: barocco è il mondo, ammoniva già Gadda, altro che neorealista!; dal barocco si scivola presto nel gotico e nell’horror (e penso alle scene di peste scolpite in cera da Gaetano Zumbo, di straordinaria attualità e di cui nessuno sembra ricordarsi); mutano, con la mutazione, anche i sogni, l’immaginario, e i deliri del seicento sono affini ai nostro.
Il seicento è anche il teatro elisabettiano con la sua visionarietà e dismisura: il cuore strappato di Peccato che sia una puttana, per esempio, Il demone bianco, e ovviamente Shakespeare, la Tempesta del vecchio mondo che incontra il Caliban delle Americhe (e già Calvino aveva avvertito che tra le fiabe di Giambattista Basile e quelle di Shakespeare c’erano stretti rapporti. E già i Grimm avevano capito che il sottofondo popolare di Basile era lo stesso dei loro contadini, anche se in Basile contava altrettanto la cultura alta, debitamente riportata al basso per mescolarla con quella. Ipotizziamo, ma non siamo convinti fino in fondo. Non crediamo che Garrone abbia avuto ben chiaro dove voleva arrivare. Più probabilmente, ha cercato di capire le basi della sua ispirazione (quella dei film già fatti e quella dei film che farà) scavando nel passato di una cultura collettiva, antropologica e non storica, quale ci viene rivelato dalla fiaba (la fantasia che nasce dall’inconscio collettivo, dall’umano più concreto in mescolanza e sintonia con il mondo vegetale e con quello animale: e sta in questa unione e in questo scambio il fascino maggiore del film) e non dalla storia (la ragione che interpreta e spiega
Però tutto questo si rivela infine un freno, perché l’apparato – il costo proprio economico di un’operazione del genere – non aiuta la libertà dell’ispirazione, e invece la costringe. E così lo sforzo di meravigliare e affascinare si dimostra faticoso, non libero – nonostante la bellezza delle immagini – e le tre fiabe non s’intrecciano in una. Il gioco dei doppi è affascinante, e lo sono i castelli e le grotte, le corti e le stamberghe, le belle e le bestie, le perle e le viscere, la gioventù e la vecchiaia, il basso e il sublime, il vero e il magico, il seicento e il duemila
Ma la gran furia di un barocco trionfale e di un barocco mortale è come se non fossero furia abbastanza, non ci trascinano e travolgono abbastanza. Non ci portano dentro la fiaba e nel suo panico, ce ne lasciano esterni. Il racconto dei racconti non ci riporta all’infanzia come avrebbe voluto o dovuto (non è certamente un film da e per bambini). Non trova il cammino per coinvolgerci, è un Pollicino che non semina abbastanza sassolini da poterne fare una guida per portarci da qualche par
Garrone subisce il tempo, il nostro, non esce forte e saggio dalla foresta delle immagini e delle suggestioni. Forse gli chiedevamo troppo, perché la sua è una condizione comune: ci perdiamo tutti nella giungla degli incubi e dei segni, e non sappiamo dove stiamo andando, dove ci stanno portando, dove vorremmo andare.